MUHAMMAD IQBAL BAL-I-JIBRIL L’Ala di Gabriele The Wing of Gabriel Traduzione dall’Urdu in Italiano con Introduzione e Note Translation from Urdu into Italian with Introduction and Notes A CURA DI VITO SALIERNO IQBAL ACADEMY PAKISTAN INTRODUZIONE 1. L’INDIA DOPO IL “MUTINY” Con la repressione inglese nel 1857, dopo il cosiddetto ammutinamento o “Mutiny”, era scomparsa dalla scena del subcontinente indiano la dinastia dei Moghul, peraltro già in decadenza un secolo e mezzo prima, alla morte dell’ultimo grande imperatore Aurangzeb, che aveva regnato per quasi mezzo secolo, dal 1659 al 1707: Bahadur Shah II, imperatore di nome per vent’anni, dal 1837 al 1857, fu deposto dagli Inglesi, dopo un processo-farsa, e confinato a Rangoon, in Birmania, dove morì dimenticato il 7 novembre 1862. Il “re di Delhi”, così chiamato perché il suo potere non oltrepassava le mura della cittadella della capitale, fu ricordato solo come poeta; in un noto ghazal aveva scritto: Il vento è all’improvviso mutato, Triste e senza pace è il mio cuore. Che dire del dolore e della tirannia? Il mio petto è straziato dall’angoscia. [...] Coloro che un tempo vissero felici, Sono ora ridotti in misera condizione. Sino agli anni Ottanta del XIX secolo il governo dell’India fu di tipo coloniale: l’interesse primario ed esclusivo del raj britannico era l’esazione delle tasse. Solo con Lord Ripon, viceré dal 1880 al 1884, si assiste ad un’apertura con l’introduzione del principio dell’autogoverno locale, sanzionato da una legge vicereale il 18 maggio 1882: si trattò di un processo che gradualmente, anche se lentamente, portò al concetto di una modernizzazione dello stato coloniale, e di conseguenza alla modernizzazione delle due religioni maggioritarie, l’hinduismo e l’islam. L’artefice del revival dell’Islam fu Sayyid Ahmad Khan, nato nel 1817 da una famiglia aristocratica di Delhi legata ai moghul; uomo maturo all’epoca della dissoluzione dell’impero, da vent’anni al servizio degli Inglesi ai quali attribuiva comunque la responsabilità del “Mutiny”, aveva capito che il riscatto dei musulmani passava attraverso una collaborazione con il raj britannico. Nel 1862 creò a Ghazipur una società scientifica e letteraria con lo scopo di tradurre in urdu i più importanti testi inglesi dell’epoca; due anni dopo, questa istituzione fu trasferita ad ‘Aligarh. Dopo un soggiorno di diciotto mesi in Inghilterra nel 1869-70, il Sayyid decise di creare ad ‘Aligarh il Muhammedan Anglo-Oriental College (1877), un college musulmano sullo stile di quelli di Oxford e Cambridge, che nel 1920 diventò università, e di pubblicare un mensile in urdu, Tahdhib al-Akhlaq (Riforma dei costumi), che uscì regolarmente dal 1871 al 1882. Ahmad Khan fu il primo musulmano moderno ad intuire i benefici della cultura occidentale nella modernizzazione della sua comunità, ad interpretare il Corano, la Sunna e la Sharia, a considerare la comunità musulmana come un tutt’uno a sé stante; nel 1885, quando fu fondato l’Indian National Congress, si dichiarò contrario alla partecipazione dei musulmani a questo partito, diventando in tal modo, inconsciamente, l’antesignano di uno “stato” separato per i musulmani del subcontinente indiano. Lo stesso atteggiamento il Sayyid mantenne nella questione linguistica: l’hindustani patrocinato dagli inglesi era diventato l’hindi del Congresso nella forma devanagari. A questo il Sayyid opponeva l’urdu che, accanto al persiano, era da tempo la lingua franca dei musulmani, scritta nella grafia arabo-persiana. Nelle parole di Iqbal, Sir Sayyid Ahmad Khan “è stato probabilmente il primo musulmano moderno a intravedere il carattere positivo dell’era successiva. Il rimedio per i mali dell’Islam da lui proposto, come pure dal Mufti Alam Jan in Russia, fu l’istruzione moderna. Ma la vera grandezza dell’uomo consiste nel fatto di essere stato il primo musulmano indiano a sentire la necessità di un nuovo orientamento dell’Islam e di aver lavorato in questa direzione. Si può non essere d’accordo con le sue vedute religiose, ma non si può negare che la sua anima sensibile sia stata la prima a reagire all’età moderna”. Alla morte di Ahmad Khan nel 1898 la questione linguistica passò nelle mani dei suoi due più stretti collaboratori, i navvab Muhsin al-Mulk e Vaqar al-Mulk; quella politica fu portata avanti dai fratelli Muhammad e Shaukat ‘Ali, che ebbero tanta parte nella causa del califfato ottomano, e dall’Agha Khan, gran signore che avrebbe riempito di sé le cronache mondane dell’Europa del XX secolo. Dal punto di vista letterario l’eredità di Ahmad Khan passò al maulana Altaf Husain Hali (1837-1914) che fu anche il suo biografo, oltre che di Ghalib di cui fu allievo ed amico. L’episodio che troncò sul nascere una possibile entente cordiale tra Hindu e Musulmani fu la decisione inglese di dividere nel 1905 il Bengala, forse nel tentativo di ingraziarsi i musulmani già penalizzati nella questione linguistica. La regione, troppo vasta dal punto di vista amministrativo (80 milioni di abitanti), fu divisa in Bengala Occidentale e Bengala Orientale con l’Assam scarsamente popolato; da notare che i distretti orientali del Bengala erano a maggioranza musulmani. In tal modo si crearono due Bengala, uno a maggioranza hindu, l’altro a maggioranza musulmana (per inciso, il Bengala orientale diventò nel 1947 il Pakistan orientale). Alcuni anni dopo, nel 1911, la divisione del Bengala fu revocata creando nuove proteste, questa volta tra i musulmani che, considerando gli Inglesi non affidabili sul piano delle promesse, pensarono ad un accordo diretto con il Congresso. Nella nuova gestione post Ahmad Khan, erano sorte fra i musulmani varie associazioni allo scopo di ottenere una rappresentanza politica più salda e più sicura. Già da tempo Sayyid Ahmad Khan aveva chiaramente detto che “il sistema della rappresentanza per elezione significa la rappresentanza delle opinioni e degli interessi della maggioranza della popolazione, e che nei paesi in cui la popolazione è composta di una sola razza ed un unico credo, questo è, senza dubbio, il miglior sistema che si possa adottare. Ma in un paese come l’India, dove ancora fioriscono le distinzioni di casta, dove non c’è fusione fra le varie razze, dove i conflitti religiosi sono violenti, dove l’istruzione in senso moderno non ha fatto un uguale e proporzionale progresso fra tutti gli strati della popolazione, non si può adottare il sistema elettorale puro e semplice. La comunità più forte numericamente prevarrebbe su quella meno forte”. Il principio dell’esistenza in India di due nazioni – l’hindu e la musulmana – era stato enunciato dallo statista musulmano senza mezzi termini, anche se gli hindu non l’accettarono né allora né dopo. Infatti il Mahatma Gandhi, scrivendo ad ‘Ali Jinnah, la futura guida della nazione pakistana, il 15 settembre 1944, diceva: “Non trovo nella storia l’esempio di alcun gruppo di neòfiti e loro discendenti che pretendano di essere una nazione separata dalla stirpe originaria. Se l’India era una nazione prima dell’avvento dell’Islam, deve rimanere una a dispetto del cambiamento di religione da parte di un gruppo della popolazione”. Nel 1906 le associazioni musulmane confluirono in una più forte e compatta, la Lega Musulmana: i musulmani si erano destati dal loro torpore ed avevano creato un’organizzazione in grado di dialogare con il Congresso. Nel marzo del 1913 la Lega approvava una mozione, presentata dal direttivo, simile nella sostanza a quella del Congresso, ponendo così le premesse per una futura cooperazione tra i due partiti. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, tutta l’India (hindu, musulmani, raja e maharaja) si schierò così a fianco dell’Inghilterra, convinta di poter ottenere in seguito un’autonomia più ampia, se non addirittura l’indipendenza. Terminata la guerra, l’India rimase delusa: il “Government of India Act” del 1919 risultò un sistema contraddittorio poiché concedeva la rappresentanza ma negava la responsabilità. I rapporti tra musulmani e hindu peggiorarono e tutti quei musulmani che sino ad allora erano stati favorevoli al Congresso si dimisero poiché pensavano che il piano d’azione degli hindu avrebbe messo in pericolo la loro comunità: fra questi anche ‘Ali Jinnah, il futuro Qa’id-i-A’zam o Grande Guida della nazione pakistana. Vi fu ancora un riavvicinamento fra hindu e musulmani durante il periodo dell’agitazione per il califfato ottomano: Gandhi ed il Congresso sostennero le richieste musulmane circa il mantenimento dello status quo nell’Impero ottomano e la continuazione della giurisdizione califfale sui luoghi santi del Hijaz, nella penisola arabica, di Gerusalemme e dell’Iraq. Fu però una collaborazione di breve durata. Dopo il 1923, con l’abolizione del califfato da parte di Mustafa Kemal Atatürk, le relazioni hindu-musulmane ritornarono ad essere quelle che erano sempre state, cioè peggiorarono, rotte solo da qualche sprazzo fugace di riavvicinamento dovuto più al desiderio di trovare un momentaneo modus vivendi che un accordo duraturo. Alla fine del 1928, in risposta alla relazione presentata al Congresso da Motilal Nehru che chiedeva la costituzione dell’India a dominion, fu tenuta a Delhi, sotto la presidenza dell’Agha Khan, una Conferenza musulmana panindiana, la più importante forse fra tutte quelle tenute durante il lungo cammino verso l’indipendenza. In tale occasione fu approvata all’unanimità una serie di principi fra i quali i più importanti erano l’adozione di un sistema federale con completa autonomia, elettorati separati, e un’adeguata rappresentanza dei musulmani nei gabinetti delle provincie e in quello centrale. Ben presto però ci si accorse dell’impossibilità di attuare un governo federale in un’India unificata, in cui musulmani e hindu avrebbero partecipato all’amministrazione del Paese in modo attivo ed in comune accordo: il sogno panindiano incominciò a perdere terreno per far posto invece all’idea di due Stati indipendenti, l’uno a maggioranza musulmana, l’altro a maggioranza hindu. Nel frattempo la Lega Musulmana si era rafforzata e nella sessione di Allahabad, il 29 dicembre 1930, Muhammad Iqbal lanciò l’idea di una “nazione musulmana”: “Vorrei vedere il Panjab, la Provincia di Frontiera Nord- occidentale, il Sindh ed il Beluchistan, amalgamati in un unico Stato. L’autonomia entro l’impero britannico o fuori di esso e la formazione di un solido Stato musulmano nell’India nord-occidentale mi sembra che siano il destino finale dei Musulmani, almeno di quelli dell’India nord-occidentale”. Tre anni più tardi, un gruppo di studenti musulmani in Inghilterra, guidati da Chaudhri Rahmat ‘Ali, fecero circolare all’università di Cambridge un opuscolo di quattro pagine con il nome di quella che avrebbe dovuto essere la nuova nazione: “Pakistan è una parola persiana e urdu. È composta con le lettere prese dai nomi di tutte le nostre madre-patrie ‘indiane’ e ‘asiatiche’, cioè Panjab, Afghania (Provincia di Frontiera Nord-occidentale), Kashmir, Iran, Sindh (inclusi Kutch e Kathiawar), Tukharistan, Afghanistan e Baluchistan. Significa la terra dei Pak - i puri spiritualmente; simbolizza le fedi religiose e la derivazione etnica delle nostre genti; e sta per tutti gli elementi territoriali costituenti la nostra originaria terra madre”. Un ultimo tentativo di conciliazione tra hindu e musulmani furono le tre Conferenze della Tavola Rotonda a Londra negli anni 1930-1932: in quelle riunioni furono discussi i vari problemi sul futuro dell’India e si cercò, per l’ultima volta, un accordo tale da consentire l’attuazione dell’ideale dell’indipendenza con l’unione di tutte le genti del sub-continente indiano, senza distinzione di razza, religione o cultura. In altri termini si giocò l’ultima carta per un’India unificata; ma le incomprensioni e più ancora la scarsa identità di vedute esistente all’interno delle stesse delegazioni hindu e musulmana fecero comprendere che era necessario raggiungere contemporaneamente l’indipendenza e la spartizione, se si desiderava evitare spargimenti di sangue e maggiori lutti a mezzo miliardo di uomini. È in questo periodo che torna alla ribalta ‘Ali Jinnah: dopo la seconda Conferenza della Tavola Rotonda il brillante avvocato s’era ritirato in volontario esilio in Inghilterra, poiché - come disse più tardi - “non si sentiva capace di aiutare l’India o mutare la mentalità hindu, né poteva contribuire a risolvere la precaria posizione dei musulmani”. La permanenza di Jinnah in Inghilterra fu però breve. Nel 1935, soprattutto per merito di Liyaqat ‘Ali Khan, futuro Primo Ministro del Pakistan, Jinnah si convinse dell’opportunità di ritornare in patria per mettersi alla testa del movimento musulmano. La Lega, che era quasi scomparsa, tornò a nuova vita, divenendo sempre più forte e compatta, anche se le elezioni del 1937 erano state un insuccesso: infatti del 30% dei voti andati ai musulmani, solo il 5% era toccato ai candidati della Lega, tanto che Jawaharlal Nehru ebbe a dire che due sole forze esistevano ormai nel Paese, il Congresso e l’Inghilterra. Lo scoppio della seconda guerra mondiale portò ad un aumento del malcontento generale in tutta l’India, anche se i principi s’affrettarono, come di consueto, ad aiutare l’Inghilterra. La situazione fra hindu e musulmani raggiunse momenti di grave tensione: mentre il Congresso, riunito a Ramgarh, denunciava la Gran Bretagna di combattere una guerra a scopi imperialistici, la Lega Musulmana approvava a Lahore, il 23 marzo 1940, una risoluzione in cui si dichiarava che lo schema federativo, incorporato nel “Government of India Act 1935”, era totalmente inapplicabile e che nessun progetto costituzionale poteva essere accolto dai musulmani se prima non si procedeva a circoscrivere e raggruppare le regioni a maggioranza musulmana, sì da dar vita a Stati indipendenti. Quella data entrerà in seguito nella storia del Pakistan come la Pakistan Resolution del 23 marzo 1940, prima impostazione ufficiale della nascente nazione islamica. Le stesse richieste furono avanzate nella sessione del 25 maggio; in quell’occasione ‘Ali Jinnah, ormai convinto della necessità della spartizione, così si espresse: “La differenza fra hindu e musulmani non è soltanto religiosa, ma giuridica e culturale: si tratta di due civiltà del tutto distinte e separate; [...] la questione quindi non è interconfessionale ma internazionale, e si può risolvere soltanto permettendo all’India di dividersi in Stati autonomi, non necessariamente avversi. I musulmani non possono accettare nessuna Costituzione che porti necessariamente ad un governo di maggioranza hindu. Unire hindu e musulmani, imponendo alle minoranze un sistema democratico, significa dare il potere agli hindu”. Il conflitto mondiale lavorò a favore dell’India: l’entrata in guerra del Giappone e la conseguente occupazione della Malesia, di Singapore e della Birmania spinsero l’Inghilterra a prendere in considerazione il problema costituzionale indiano con la proposta di concedere, dopo la guerra, il rango di dominion all’Unione Indiana, che sarebbe stata formata con quelle provincie e Stati disposti ad accedervi; identico rango sarebbe stato concesso a quelle provincie e Stati che non volevano l’accessione all’Unione. Congresso e Lega respinsero in pieno questa proposta tardiva, e i musulmani se ne avvantaggiarono rimettendo sul tappeto la questione del Pakistan; infatti, lo stesso Governo britannico, con la sua proposta, aveva implicitamente riconosciuto la validità, sul piano teorico, delle richieste musulmane. Perfino Gandhi fu portato ad ammettere, anche se con riluttanza, la possibilità di un futuro Pakistan; il 19 aprile 1942 così si espresse attraverso le colonne del giornale “Harijan”: “Se la grande maggioranza dei musulmani si considera una nazione separata, che non ha nulla in comune con gli hindu e altri, nessuna forza al mondo può costringerli a pensare diversamente. E se essi vogliono la spartizione dell’India su questa base, essi devono avere la spartizione a meno che gli hindu non vogliano opporsi con le armi ad una simile divisione”. Ad ogni modo il problema dell’indipendenza dell’India aveva ormai avvinto tutti, musulmani e hindu, e si imponeva tra i fatti ineluttabili della storia. Si trattava soltanto di vedere se vi sarebbe stata un’India unita come voleva il Congresso o due Stati separati come reclamava la Lega. Il fattore decisivo fu in Inghilterra l’avvento di un governo laburista che considerò impossibile il protrarsi di una dominazione in India. Gli avvenimenti indiani degli anni successivi (1945-1946) lo confermarono: furono indette nuove elezioni e la Lega conquistò quasi tutti i seggi riservati ai musulmani, dimostrando così di essere la sola legittima rappresentante della comunità musulmana. All’inizio del 1946 il Governo britannico inviò in India una missione con il compito di preparare uno schema per concedere al Paese l’autonomia. Con questo progetto si cercava, da parte britannica, di conciliare le richieste sia degli hindu che dei musulmani. Infatti lo schema elaborato prevedeva la creazione di due organismi, riuniti però sotto il governo centrale dell’Unione Indiana, alla quale erano riservati i ministeri degli Affari Esteri, Difesa, Comunicazioni e Finanze, ed inoltre la divisione delle undici provincie governative in tre gruppi, due dei quali sarebbero stati formati da popolazioni in prevalenza musulmane e corrispondevano all’incirca alle richieste della Lega. Infine il progetto contemplava la nomina di un governo interinale fino all’elezione di un’Assemblea Costituente. Ma anche questo piano era destinato a fallire. La Lega chiedeva la parità con il Congresso nel governo interinale ed il diritto esclusivo di nominare membri musulmani. Il Congresso non era disposto a concedere la parità richiesta data la sua superiorità di forze e non desiderava rinunciare al diritto di nominare membri musulmani poiché non si riteneva un corpo esclusivo come la Lega. Per tagliar corto alle discussioni peraltro infruttuose, la Lega boicottò il governo interinale che fu composto con membri del Congresso e si preparò a passare all’azione diretta. ‘Ali Jinnah invitò i suoi correligionari alla lotta con uno storico discorso, conclusosi con le parole del poeta persiano Firdusi: “Se voi cercate la pace, noi non vogliamo la guerra. Ma se voi volete la guerra, noi l’accetteremo senza esitazione”. Sanguinose rivolte scoppiarono ovunque, in particolare a Calcutta nel Bengala, a Bombay e nel Panjab. Tutto faceva presagire lo scoppio di una lunga e sanguinosa guerra civile che Jinnah aveva profetizzato come inevitabile se l’India avesse ottenuto l’autonomia senza la creazione di due nazioni. Man mano i mesi passavano, la situazione si faceva sempre più grave finché il 20 febbraio 1947 il governo laburista, nel disperato tentativo di porre fine a quelle sanguinose lotte, annunciò che al più tardi del giugno 1948 l’India avrebbe ottenuto l’autonomia in una maniera conforme alle esigenze e agli interessi delle varie comunità. Due mesi più tardi Nehru, che nel frattempo aveva sostituito Gandhi nella direzione del Congresso, si adattò all’idea della spartizione. Il nuovo viceré Lord Mountbatten presentò il 3 giugno un piano per la spartizione annunciando che la data fissata per l’indipendenza e la separazione sarebbe stata anticipata al 15 agosto. In luglio il Parlamento approvò l’Atto di Indipendenza secondo il quale l’India era divisa in due nazioni indipendenti, ognuna con il rango di dominion, mentre i vari Stati indiani erano liberi di accedere all’uno o all’altro Stato; veniva inoltre a cessare la sovranità inglese sugli Stati indiani e con essa tutti i trattati e gli accordi in vigore tra la Gran Bretagna e i sovrani indigeni. Come stabilito, alla mezzanotte tra il 14 e il 15 agosto 1947 nascevano le due nuove nazioni dell’India e del Pakistan. Il vecchio impero britannico - per adoperare le parole dell’Agha Khan - s’era dissolto “come la prima nebbia del mattino sotto la sferza del sole”. 2. MUHAMMAD IQBAL Nel 1879, due anni dopo la nascita di Iqbal (Sialkot 9 novembre 1877 - Lahore 21 aprile 1938), il mondo letterario dell’India musulmana vide l’affermazione di un poemetto di Hali che avrebbe cambiato la vita di molti musulmani: il Madd-u-jazr-i Islam (L’alta e bassa marea dell’Islam), in ottave, che esercitò un influsso senza precedenti sul risorgimento indo-musulmano. Scritto in un urdu semplice e poco persianizzato, di facile comprensione per il popolo, il poemetto ebbe una larga diffusione: descrive le glorie passate dell’Islam, i successi dei suoi capi, gli ideali dei tempi antichi, il letargo e la decadenza dell’epoca presente, in cui l’ulama [il religioso] si mostra intollerante, il medico ignora la scienza, il poeta è un parassita, e termina con un appello ai vecchi e ai giovani di riportare l’Islam ad una rinascita culturale, religiosa e politica. Entusiastico fu il commento di Sir Sayyid Ahmad Khan: “Sì, sono stato io a spingerlo a scriverlo, e lo considero di tale statura tra le mie azioni migliori che, nel giorno del giudizio, quando Iddio mi chiederà ‘Che cosa mi hai portato?’, risponderò ‘Ho portato il musaddas che Hali ha scritto su mia sollecitazione: nulla di più”. Muhammad Iqbal ricevette la sua prima istruzione nella città natale dove ebbe come insegnante di arabo e persiano il maulvi Sayyid Mir Hasan (1844-1929), docente al Murray College, che in seguito fu insignito dal Governo Britannico del titolo di Shams al-‘Ulama. Nel 1895 Iqbal entrò al Government College di Lahore dove fu allievo di Thomas W. Arnold (1864-1933) che lo guidò nel campo della filosofia. L’influenza del maestro sul giovane allievo è dimostrata dalla poesia Nala-i firaq [Lamento per la separazione] che Iqbal scrisse nel 1904 e inserì nel Bang-i Dara. Conseguito il titolo di M.A. [Master of Arts] nel 1899, ad Iqbal fu assegnato un lettorato di arabo all’Oriental College di Lahore, da dove passò alcuni anni dopo al Government College come incaricato di filosofia. Nel 1905 Iqbal decise di recarsi in Inghilterra per sostenere gli esami di avvocato e per completare i suoi studi in filosofia al Trinity College di Cambridge. Su consiglio del prof. Arnold, che si trovava allora in Inghilterra, Iqbal si dedicò a ricerche sul misticismo persiano preparando sull’argomento una tesi per la laurea in filosofia a Cambridge e successivamente per il Ph. D. [Philosophiae Doctor] all’Università di Monaco. La tesi, The Development of Metaphysics in Persia. A contribution to the History of Muslim Philosophy, fu in seguito pubblicata nel 1908 presso Luzac e ristampata nel 1955 dalla Bazm-i Iqbal o Accademia Iqbaliana a Lahore. Laureatosi in legge nel 1908, Iqbal ritornò a Lahore per esercitare l’avvocatura che abbandonò solo nel 1934 per le cattive condizioni di salute. La sua prima lirica risale al 1899: Homala, sulle bellezze naturali dell’Himalaya, che fu recitata durante una riunione di poesia indetta dalla Anjuman-i Himayat-i Islam [Società per il sostegno dell’Islam] a Lahore. Fu talmente apprezzata dagli ascoltatori e dal noto poeta Dagh (1831-1905) di Delhi che venne pubblicata nel 1901 nel numero di aprile della rivista letteraria “Makhzan” [Il magazzino]. E qui dobbiamo fare una digressione per mettere in risalto il fatto che la poesia in Pakistan non è appannaggio di una élite o delle classi colte: è patrimonio popolare. Basti pensare che la musha‘ira, vale a dire una riunione di poeti, è in gran voga in Pakistan ed ha un rituale tutto suo. Con un certo anticipo sul giorno fissato si mandano gli inviti ai vari poeti, unitamente al misra‘-i tarah, che fissa il metro e la rima cui tutti i poeti invitati devono uniformarsi. Semplice è la struttura del ghazal, sorta di lirica breve e popolare, ma tutt’altro che facile: ogni verso (she‘r), formato da due emistichi (misra‘), racchiude un’idea completa di per sé stessa, e pertanto indipendente dal verso seguente; naturalmente vi è una connessione logica tra i vari versi. Negli ultimi due emistichi (maqta‘) il poeta include generalmente il suo pseudonimo (takhallus). Dal punto di vista metrico solo i primi due emistichi (matla‘) rimano; gli altri emistichi devono rimare alternatamente. Dal punto di vista del contenuto i soggetti comunemente trattati sono l’amore, la bellezza, la gioia dell’unione e il dolore della separazione, l’indifferenza e il disdegno dell’amata, la triste condizione dell’innamorato, il vano consiglio degli amici, il fervore religioso del moralista, e simili. Nel giorno della musha‘ira le case sono decorate a festa, luci e specchi riflettono il loro splendore, tappeti e cuscini vengono distesi sul pavimento, mentre grandi tendoni dai colori vivaci, le cosiddette shamiyana, vengono sistemati dappertutto. Il mir-i musha‘ira, cioè colui che ha il compito di presiedere la riunione, è generalmente un poeta famoso o un grande conoscitore di poesia. Egli dovrà regolare il turno, incominciando dai poeti minori per finire ai maggiori; per tradizione, il mir-i musha‘ira chiude la riunione recitando egli stesso un ghazal e ricevendone gli applausi più nutriti. Il pubblico, comprendente gente di tutte le classi e condizioni sociali, è molto competente e colto: tale pubblico non risparmia le più grandi lodi, ma non tollera il più piccolo errore o la più lieve banalità. Numerosi sono gli esempi di poeti rovinati per sempre dalla critica spietata e terribile dei loro ascoltatori. Spesso poi la musha‘ira termina prima del previsto; ciò accade quando viene recitato un verso di eccezionale bellezza, che il pubblico sottolinea a gran voce. A questo punto nessun poeta osa più cimentarsi e i convenuti si sperdono declamando e commentando il verso vincitore. Il mattino dopo i migliori ghazal sono pressoché “pubblicati”: nei bazar, al mercato, per i vicoli la gente si passa di bocca in bocca i versi uditi la notte precedente. Una volta noto, Iqbal fu invitato regolarmente alla riunione annuale dell’Anjuman-i Himayat-i Islam di Lahore; rimasero famose le sue recitazioni di Tasvir-i dard [L’immagine del dolore] nel 1904, Shikva [Protesta] nel 1911 e Javab-i Shikva [Risposta alla protesta] nel 1913, che confluirono poi nel Bang-i Dara [Il richiamo della carovana], la prima raccolta in urdu, pubblicata nel settembre 1924. Shikva è la più significativa di questo gruppo di poesie, anche se dal punto di vista popolare le più note sono Tarana- i milli [Inno nazionale] e Naya Shivala [Un nuovo altare], certamente per l’immediatezza del concetto e la presa sul pubblico analfabeta ma non ignorante. Controversa fu l’accoglienza riservata a Shikva al suo primo apparire: per i musulmani ortodossi era inconcepibile una “Protesta” nei confronti di Dio, accusato di aver smesso di spargere i suoi doni tra i musulmani che avevano propagato la fede del Corano e diffuso il suo nome nel mondo. Come poteva - dicevano gli ortodossi scandalizzati - essere Iddio “accusato di ingiustizia”? Dall’altra parte, i musulmani nazionalisti - nel subcontinente indiano si lottava per l’indipendenza dagli inglesi e la separazione dagli hindu, e per la formazione di quello che sarà il Pakistan - avevano accolto con favore questa poesia e innalzato i loro osanna a Iqbal per i connotati didattici e politici. In realtà Iqbal non era stato compreso appieno né dagli uni né dagli altri: forse sia gli uni che gli altri avevano voluto accentuare il dissenso o il consenso per evidenti interessi politici. Iqbal era, da un punto di vista generale, un portavoce di tutto l’Islam, e da un punto di vista particolare il “vate” della nazione pakistana. Suo compito, al pari di quello di Hali e di Ghalib, suoi predecessori, era quello di chiamare i musulmani alla riscossa in nome delle glorie passate. Si ricordi il suo pianto in Siqilliya, la Sicilia vista durante il suo viaggio verso l’Inghilterra nel 1905. Perché - si chiede Iqbal in Shikva - rimanere in un silenzio passivo e sterile e non protestare? È vero che è costume dei musulmani rassegnarsi, anzi scusarsi se ci si lamenta; ma Iddio non può non ascoltare la protesta di un suo fedele, un tempo assuefatto alla lode. Iddio è pre-esistente all’eternità: esisteva anche quando “qua si adoravano pietre, là si veneravano alberi”. Chi recitava allora il suo nome? nessuno. Furono i musulmani che levarono le spade nel suo nome, che “rimisero a posto le cose” quando il mondo preislamico era dominato dal paganesimo politeista o da monoteismi corrotti, che bagnarono del loro sangue i campi di battaglia, per terra e per mare, facendo risuonare l’azan, l’invito alla preghiera “nelle chiese d’Europa”, recitando la kalima, la professione di fede “all’ombra delle spade”. La guerra santa - dice Iqbal - non fu mai condotta per brama di imperio, ma per diffondere la fede monoteistica, l’Islam: in realtà, aggiungiamo noi, non fu questo l’unico scopo, come ben sappiamo dalla storia, anche se Iqbal insiste sul motivo: Il marchio del monoteismo incidemmo in ogni cuore E diffondemmo quel messaggio anche con i pugnali. Dopo aver richiamato la storia degli inizi della predicazione dell’Islam, le benemerenze acquisite dai musulmani per affermare l’unità e la grandezza di Dio, la fede sincera e la preghiera devota, “rivolti alla qibla”, anche durante l’infuriare della battaglia, il livellamento democratico della società senza schiavi e padroni, senza poveri e ricchi, l’eliminazione del Falso [batil], cioè le vanità del mondo quali schiavitù, caste, panteismo, e via dicendo, Iqbal si rivolge a Dio con parole dai più considerate blasfeme: Ed ora te la prendi con noi ché non siamo fedeli. Se non siamo fedeli noi, Tu non sei generoso. Agli altri - continua Iqbal - Iddio concede i suoi doni, mentre punisce proprio i suoi fedeli, i musulmani: gli infedeli [kafir] ricevono i suoi benefici, cioè le huri, le vergini celesti, e i qusur, i magnificenti castelli celesti, mentre ai musulmani, i veri fedeli, vanno solo le promesse [va’da] di quelle ricompense. È triste vendetta che gli infedeli abbiano huri e castelli, E i poveri musulmani soltanto la promessa delle huri. In questa irritata affermazione - scrive Alessandro Bausani - si rispecchia, se non andiamo errati, tutta la inconscia ‘invidia’ e l’inferiority complex del musulmano moderno verso gli Europei, e si rivela nel contempo la inscindibile unione di successo religioso con successo ‘visibile’, mondano, tipico della concezione religiosa musulmana (come del resto della ebraica antica). Di qui la inspiegabilità della posizione storica attuale agli occhi del musulmano credente (il dominio fisico del mondo avrebbe dovuto, ovviamente, essere dell’Islam e non di una religione preislamica, antica, come il cristianesimo) e la sua irritazione contro la ‘ipocrisia’ di una religione come la cristiana che - proprio mentre proclama, in modo incomprensibile per un musulmano, la follia della croce e l’ascetismo e il distacco assoluto e la superiorità dell’insuccesso mondano sul successo - è, di fatto, riuscita a conquistare il predominio politico sul mondo che avrebbe dovuto essere logico retaggio islamico! Anche se il mondo dell’Islam - procede Iqbal nella sua “Protesta” - è in decadenza, non tutto è perduto: vi è ancora chi ricorda l’amore divino di mistici e santi dei primordi dell’Islam. È necessario solo riscuotere gli animi dall’apatia in cui sono caduti, ridare fiducia agli inerti, incoraggiare gli scoraggiati, rammentare l’antica forza della fede a tutti coloro che ora sono accecati dal fanatismo. Le melodie sono impazienti di uscire dalle corde, Il Sinai si agita per bruciare all’antico fuoco! La “protesta” si chiude con l’invito del poeta, solitario cantore, a riprendere la marcia interrotta: C’è un usignuolo che è ancora preso dal canto, Nel suo petto si agitano ancora le melodie. Due anni dopo Iqbal compose il Javab-i Shikva [La risposta alla protesta] che recitò a Lahore nel 1913: è la risposta di Allah alla protesta del poeta. L’occasione fu la campagna per la raccolta di fondi a favore dei turchi nella guerra contro i bulgari: migliaia di copie del poema furono vendute e il ricavato fu inviato a Costantinopoli. Con questa seconda parte Iqbal intese rispondere alle critiche dei musulmani ortodossi usando parole pure e sincere, provenienti dal cuore e capaci di giungere al cielo. La “risposta” per bocca di Allah considera la situazione di degrado in cui si trovavano i musulmani all’inizio del secolo. Divisi in nazioni, tribù, clan, si erano allontanati dagli insegnamenti del Profeta, abbandonando le tradizioni per ritornare all’idolatria e all’adorazione dei sepolcri. Invece di seguire il modo di vita tracciato dagli antenati, si erano lasciati conquistare dai valori occidentali e corrompere dallo stile di vita degli hindu. I ricchi vivono nel veleno delle ricchezze; solo i poveri frequentano le moschee, sopportano i dolori del digiuno nel mese di ramadan, lodano Iddio e cercano di nascondere le cattive azioni dei ricchi. Che ne è stato - si chiede Iddio - del modo frugale di vita di ‘Othman che donò alla comunità le ricchezze provenienti dalle provincie conquistate? e del modo ascetico di vita di ‘Ali, il quarto califfo? Che relazione spirituale c’è tra voi e i vostri antenati? Essi, come musulmani, furono in quel tempo rispettati, Voi, abbandonando il Corano, siete diventati reietti. I giovani hanno accettato il modo di vivere cittadino e si sono corrotti, hanno inseguito gli agi e i beni materiali, dimenticando le loro origini e la vita frugale del deserto. Ma è proprio nel momento del pericolo che si deve avere il coraggio di reagire: Il tumulto causato dall’aggressione bulgara Per i tiepidi è ora un messaggio di squilla. La “protesta” si chiude con un invito alla speranza: nulla è perduto se il musulmano ritorna alla sua fede, al suo Dio: Nel bocciuolo è il profumo che attira, si sparga l’ansia, Il fardello sulle spalle, si diffonda la brezza del giardino. Tu sei un atomo, possa tu estenderti tutto ad una vastità. Il mormorio dell’onda diventi un tumulto di uragano, Con il potere dell’amore si sollevino gli umili, Con il nome del Profeta ritorni nel mondo la luce. La particella che è ognuno di noi può estendersi e diventare molteplicità infinita, il mormorio dell’onda può diventare un uragano, la luce può ritornare nel mondo nel nome di Muhammad: Senza il fiore, non ci sarebbe il canto dell’usignuolo, Senza il coppiere, non ci sarebbe né vino né caraffa, il coppiere [saqi], ossia il maestro che versa il vino della conoscenza intuitiva, non potrebbe diffondere nel mondo il credo dell’unità di Dio [tohid]. I due poemetti (n.88 e n.103), che vogliono essere uno sforzo per conciliare l’Islam e l’Occidente, dimostrano quest’intento anche nell’uso particolare del lessico. Ricorrenti sono nel linguaggio di Iqbal determinati vocaboli che, oltre a dare risalto al filo conduttore della “protesta”, catturano l’orecchio con i loro suoni. I vocaboli più usati riguardano il mondo in cui viviamo: dunia [mondo] accanto a sahra [deserto] e gulshan/gulistan [roseto/giardino]. In questo contesto si colloca il bulbul [usignuolo] che è il poeta e non certo l’usignuolo stereotipato della poesia convenzionale, il poeta che è preso dal canto d’amore per l’umanità, ‘ishq [amore], termine ricorrente una decina di volte sempre con sfumature varie. Proprio all’inizio della “protesta” il poeta chiarisce il suo intento: Perché ascoltare il lamento dell’usignuolo, fattomi tutt’orecchi O cantore! son forse una rosa che debbo mantenere il silenzio? Nel turbamento [pareshani] e nel tumulto [hangama] della vita il faro è Allah, che è il profumo del fiore, il fiore dell’aiuola. È nel nome di Allah che risuonò l’invito alla preghiera, l’azan, anche fuori delle terre dell’Islam, da Santa Sofia in Costantinopoli alla moschea di Còrdoba, in Spagna, e in Sicilia. La jihad [la guerra santa] fu adoperata - sempre secondo Iqbal - per diffondere il monoteismo [tohid] e non per furto o saccheggio o per vendere gli idoli conquistati [but, sanam]. Il marchio del monoteismo incidemmo in ogni cuore E diffondemmo quel messaggio anche con i pugnali. Inutile dire che il termine tohid è ricorrente nei due poemetti anche in unione con termini tipici quali mae-i tohid [il vino dell’unità di Dio], mast-i mae [intossicato dal vino], nur-i tohid [la luce dell’unità di Dio], bazm-i tohid [il banchetto dell’unità di Dio], naqsh-i tohid [il marchio dell’unità di Dio]. E nell’infuriare della battaglia [jang] il musulmano era sempre rivolto, fisicamente durante la preghiera o spiritualmente con il pensiero e la mente, alla qibla, alla Mecca, alla Ka‘ba: Dalle pagine del tempo cancellammo il falso, noi, Il genere umano salvammo dalla schiavitù, noi. E qui ritorna il contrasto tra batil [il falso] e haqq [il vero], nel senso di “vano”, cioè il mondo “inutile” del ciclo spirituale e materiale premonoteistico e il “vero”, il “giusto” dell’Islam. E conclude. Chi resterebbe al mondo a diffondere il messaggio dell’Islam se scomparissero i musulmani? quale coppiere [saqi] verserebbe il vino [mae] della conoscenza dell’unità di Dio? Noi viviamo perché nel mondo resti il Tuo nome, Come può restare la coppa senza il coppiere? Al tempo stesso Iqbal cominciò a scrivere in persiano, lingua che trovò congeniale per esprimere le sue idee filosofiche. Nel 1915 pubblicò la sua prima opera in persiano, Asrar-i Khudi [I segreti dell’Io], che fu tradotta in inglese. Il suo nome, già noto in India, Iran e Turchia, fu in breve conosciuto in Inghilterra ed in America. A questo poemetto fece seguito il Rumuz-i Bekhudi [I misteri del non- Io] in cui il poeta, dopo aver affrontato lo sviluppo dell’Io o Personalità umana, proponeva la Forza ed il Coraggio come gli ideali che l’uomo deve seguire per raggiungere il suo grande Destino, e la soggezione della Personalità alla Legge, in questo caso alla legge dell’Islam. Nel 1923 apparve a Lahore la raccolta di poesie in lingua persiana, il Payam-i Mashriq [Il Messaggio dell’Oriente], un insieme di liriche modellate nello stile adoperato da Goethe nel suo West-östlicher Divan [Il Divan Occidentale-orientale] pubblicato nel 1819. Così come Goethe era sceso nel profondo di sé malgrado la critica vi avesse visto l’evasione del poeta in un mondo lontano, la “liberazione del presente” in una “obliosa delizia d’artista”, anche Iqbal - come scrive egli stesso nella lunga introduzione alla raccolta - vuole “mettere in evidenza quelle verità morali, religiose e nazionali che sono in relazione con la educazione interiore degli individui e dei popoli. [...] L’Europa ha visto con i propri occhi le terribili conseguenze dei suoi ideali scientifici, morali ed economici e ha anche ascoltato dal signor Nitti (ex primo ministro d’Italia) la triste storia della ‘decadenza dell’Occidente’. [...] L’Oriente, e specialmente l’Oriente musulmano, dopo il sonno ininterrotto di secoli, ha riaperto gli occhi, ma i popoli d’Oriente devono aver chiara la sensazione che la Vita non può produrre nel suo ambiente esteriore rivoluzione alcuna finché non si produca una rivoluzione interiore nelle sue profondità”. Nel 1927 uscì, sempre in persiano, lo Zabur-i ‘Ajam [I salmi di Persia]: si tratta di una raccolta in tre sezioni distinte. La prima comprende i veri e propri salmi suddivisi in poesie numerate, senza titolo, di contenuto generale, e in poesie tipo “manifesto”. Segue un poemetto, il Gulshan-i Raz-i Jadid [Il Nuovo Roseto del Mistero], una sorta di compendio del sufismo: scopo di Iqbal è quello di mostrare come la sua teoria dell’Io sia in sostanza profondamente diversa da quella di una concezione corrente della mistica, cosa che fa adoperando in un modo nuovo metafore e termini tecnici della mistica tradizionale. Infine il Bandagi-namah [Libro della schiavitù], in cui Iqbal analizza le ragioni della disposizione dell’uomo a diventare schiavo degli altri. L’ultima opera in persiano, la migliore, è il Javed-namah così chiamato dal nome del figlio Javed. Il “Poema celeste”, questo il titolo più noto, fu tradotto per la prima volta in una lingua europea, per l’appunto in italiano, da Alessandro Bausani nel 1952. Paragonabile nello schema al poema dantesco, è la rappresentazione allegorica di un volo nel Mondo Superiore, compiuto dall’anima del Poeta, che ha come suo Virgilio l’anima del mistico persiano del XIII secolo, Jalal ad-din Rumi. Nel suo viaggio Iqbal non tocca però l’Inferno, né fa alcun accenno al peccato; interessante è il suo incontro con Nietzsche, il filosofo tedesco propugnatore della teoria dello Übermensch. La vera fonte di questo messaggio, dato al mondo da Iqbal, fu lo spirito dell’Islam: Nietzsche non credeva nella religione, per Iqbal questa era invece la sola sorgente di vita e di forza. Prima di tornare alla produzione in urdu, che è scopo precipuo del nostro lavoro, dobbiamo fare un cenno all’attività politica di Iqbal, anche se qualcosa di specifico, e cioè dei rapporti con l’Italia, è stato oggetto nella nostra introduzione alla versione italiana del Bang-i Dara [Il richiamo della carovana]. Tutta l’attività politica di Iqbal fu volta a dare una patria ai Musulmani sparsi per tutta l’India. Messo da parte il sogno panindiano per l’impossibilità di un accordo tra musulmani e hindu per un governo federale in un’India unificata, cominciò negli anni Trenta del secolo scorso a prender piede l’idea di due Stati indipendenti, uno a maggioranza hindu, l’altro a maggioranza musulmana. Nel 1930, in qualità di presidente della sessione della Lega Musulmana, tenutasi ad Allahabad, Iqbal lanciò l’idea della “nazione musulmana”. In una lirica “L’eterna rivoluzione”, inclusa nel Payam-i Mashriq, aveva così profetizzato l’avvento del più grande Stato musulmano del mondo, il Pakistan: Il seme che in seno alla terra è ancora sommerso Lo vedo albero alto, e ricco di fronde e di frutti! E vedo, non so dire come, una grande rivoluzione: Che i confini del cuore dei cieli non san contenere! Come già detto all’inizio, il Bang-i Dara è la prima raccolta in urdu, apparsa nel 1924: reca un’introduzione dello Shaikh ‘Abd al-Qadir, già direttore della rivista “Makhzan” in cui era apparsa la prima poesia di Iqbal, Himalaya. Lo sceicco descrive in dettaglio l’evolversi dell’ispirazione di Iqbal con il passaggio dalla lettura e recitazione dei versi all’ausilio del canto. Infatti i versi in urdu, in persiano ed in altre lingue orientali non sono fatti per essere letti o recitati, ma cantati; ne abbiamo accennato a proposito della musha’ira. L’impatto risultava pertanto forte sugli ascoltatori, anche su quelli non in grado di capire i versi di primo acchito a causa dei concetti spesso oscuri o difficili. Seguiamone la descrizione di ‘Abd al-Qadir: La sua ispirazione poetica, quando gli veniva, aveva un carattere vulcanico: durante una seduta era capace di improvvisare innumerevoli versi, che i suoi amici ed alcuni studenti annotavano a lapis, ricantandoli poi a loro modo. [...] Dapprincipio Iqbal, nelle sedute pubbliche, usava recitare le sue poesie con voce normale e, anche così, l’effetto era molto bello; ma una volta, in una seduta pubblica, alcuni amici insistettero affinché cantasse i suoi versi melodicamente. Aveva una voce naturalmente forte e piacevole ed aveva una speciale abilità nella recitazione melodica. L’armonia con cui cantò fu tale che si fece un improvviso silenzio e tutti gli astanti cominciarono a muovere ritmicamente il capo. Ne risultarono due effetti: il primo è che ora è diventato per lui difficile recitare versi senza cantarli, perché ogni volta che comincia a recitarli normalmente tutti insistono perché li canti, e il secondo è che mentre prima solo una élite di persone colte apprezzava e comprendeva i suoi versi, ora egli attrae anche il volgo. A Lahore, quando Iqbal canta i suoi versi nelle sedute pubbliche della Anjuman-i Himayat-i Islam, si radunano decine e decine di migliaia di persone che durante tutta la recitazione siedono col fiato sospeso nella più assoluta attenzione, in estasi, sia che capiscano sia che non capiscano il significato dei versi stessi. Le poesie del Bang-i Dara sono divise in periodi. Quelle iniziali che vanno dal 1901, data di pubblicazione di Himalaya, al 1905 quando il poeta partì per l’Inghilterra: tralasciando gli adattamenti per i bimbi o quelli da Ralph Waldo Emerson (1803-1882) “La montagna ed uno scoiattolo”, da William Cowper (1731-1800) “Simpatia”, dal Rig Veda “Il sole”, da Henry Wadsworth Longfellow (1802- 1882) “Il messaggio del mattino”, da Alfred Tennyson (1809-1892) “Amore e morte”, le poesie significative, oltre a quelle recitate nelle sedute pubbliche, sono quelle a carattere didattico o didascalico quali “La candela e la falena”, “Ragione e cuore”, “La luna nuova”, “Virtù e vizio”, e in particolare “Un nuovo altare” in chiave nazionalistica e di una ancora possibile entente cordiale tra musulmani e hindu: Pensavi che v’era Dio negli idoli di pietra, Per me ogni particella della mia patria è Dio. Il periodo che va dal 1905 al 1908 riguarda gli anni trascorsi da Iqbal in Europa. Pur essendo il meno prolifico, comprende liriche più mature sia dal punto di vista del contenuto che della forma. Basti pensare a “L’essenza della bellezza”, al dialogo tra “La luna e le stelle”, alla nostalgia malinconica di “Una sera”, scritta ad Heidelberg lungo le rive del Neckar, ai versi struggenti di “Solitudine”, o alla meravigliosa lirica dedicata alla “Sicilia”. Il terzo periodo è quello del ritorno a casa: va dal 1908 al 1924 anno della pubblicazione del Bang-i Dara. Si tratta delle grandi odi nazionali: “Città dell’Islam”, “Inno nazionale”, “Nazionalismo”, e soprattutto le già citate “Protesta” e “Risposta alla protesta”, non ultimi i versi di denuncia del modernismo: Pensavamo che l’istruzione avrebbe portato felicità, Nessuno sapeva che avrebbe portato anche ateismo. Al gennaio 1935 risale la pubblicazione della seconda raccolta di versi in urdu, la più matura, che va sotto il titolo di Bal-i Jibril [L’Ala di Gabriele], oggetto di questo libro, di certo il migliore tra i tre composti in urdu. L’opera sembra voler esaudire la speranza espressa da Shaikh ‘Abd al-Qadir nella parte finale dell’introduzione al Bang-i Dara, e cioè che Iqbal desse alla letteratura in urdu quella ricchezza che egli aveva dato alla letteratura in persiano. Il Bal-i Jibril rappresenta un’interessante evoluzione nello stile dell’urdu di Iqbal: dall’urdu quasi “paesano” del Bang-i Dara all’urdu persianeggiante del Bal-i Jibril, da un urdu “indiano” ad un urdu “pakistano”. Tre sono le novità: dal punto di vista del contenuto, la trattazione di concetti filosofici o politico-sociali; da quello dello stile, l’uso abbondante di termini persiani; da quello della metrica, l’impiego di ghazal o pseudo-ghazal e di ruba‘i o quartine, frutto della sua personale esperienza mistica, in particolare il concetto dell’Io ed il conflitto tra ragione e amore divino. Per comprendere in maniera corretta la sua esperienza mistica ci vengono in soccorso quattro paragrafi della prima delle sette conferenze raccolte sotto il titolo di The Reconstruction of Religious Thought in Islam: 1. Il primo punto è l’immediatezza dell’esperienza [mistica]. Sotto quest’aspetto non differisce da altri livelli dell’esperienza umana che forniscono dati alla conoscenza. Tutta l’esperienza è immediata: proprio come le regioni dell’esperienza normale sono soggette all’interpretazione dei dati sensoriali per la nostra conoscenza del mondo esterno, così la regione dell’esperienza mistica è soggetta all’interpretazione per la nostra conoscenza di Dio. L’immediatezza dell’esperienza mistica significa soltanto che noi conosciamo Dio proprio come noi conosciamo altri oggetti. Dio non è un’entità matematica o un sistema di concetti correlati scambievolmente o senza alcun riferimento all’esperienza. 2. Il secondo punto è l’interezza dell’esperienza mistica che non è analizzabile. Quando faccio esperienza del tavolo di fronte a me, innumerevoli dati dell’esperienza si uniscono nell’esperienza singola del tavolo. Da questa ricchezza di dati seleziono quelli che cadono in un certo ordine di spazio e tempo e li completo con riferimento al tavolo. Nello stato mistico, per quanto vivido e ricco possa essere, il pensiero è ridotto al minimo ed una simile analisi non è possibile. Ma questa differenza dello stato mistico dalla consapevolezza razionale ordinaria non significa discontinuità con la consapevolezza normale, come pensava erroneamente il professor William James. In entrambi i casi è la stessa Realtà che opera su di noi. La consapevolezza razionale ordinaria, in vista della nostra necessità pratica di adattamento al nostro ambiente, coglie quella Realtà pezzo per pezzo, selezionando successivamente serie isolate di stimoli per reazione. Lo stato mistico ci porta in contatto con il passaggio totale della Realtà in cui tutti i diversi stimoli si fondono l’un nell’altro e formano una singola unità non analizzabile nella quale non esiste la distinzione ordinaria di soggetto e oggetto. 3. Il terzo punto da notare è che per il mistico lo stato mistico è un momento di intima associazione con l’unico Altro Io, che trascende, racchiude e sopprime temporaneamente la personalità privata del soggetto dell’esperienza. Dal punto di vista del contenuto, lo stato mistico è altamente oggettivo e non può essere considerato come un semplice isolamento nelle nebbie della pura soggettività. Ma mi chiederete come sia del tutto possibile l’esperienza immediata di Dio come un Altro Io Indipendente. Il semplice fatto che lo stato mistico sia passivo non prova alla fine la ‘diversità’ genuina dell’Io sperimentato. Questa domanda sorge nella mente perché noi assumiamo, senza critica, che la nostra conoscenza del mondo esterno attraverso la percezione sensoriale è il tipo dell’intera conoscenza. Se così fosse, noi non potremmo mai essere sicuri della realtà del nostro proprio io. Ad ogni modo, in risposta suggerisco l’analogia della nostra esperienza sociale quotidiana. Come conosciamo le altrui menti nelle nostre relazioni sociali? È ovvio che noi conosciamo il nostro proprio io e la nostra natura con la riflessione interiore e con la percezione sensoriale rispettivamente. Noi non possediamo alcun senso per l’esperienza delle altrui menti. L’unico terreno della mia conoscenza di un essere consapevole di fronte a me sono i movimenti fisici simili ai miei dai quali ricavo la presenza di un altro essere consapevole. O, potremmo dire, sulla scia del professor Royce, che sappiamo che i nostri compagni sono reali perché rispondono ai nostri segnali e forniscono così in maniera costante il supplemento necessario ai nostri propri significati frammentari. Il responso è, senza dubbio, la prova della presenza di un io consapevole, un punto di vista condiviso dal Corano: E disse il vostro Signore: ChiamateMi ed io vi risponderò (XL, 60). Quando i Miei servi ti chiedono di Me, Io sono vicino; ed esaudirò la preghiera di chi prega quando Mi prega (II, 182). È chiaro che se applichiamo il criterio fisico o quello non- fisico e più adeguato di Royce, in entrambi i casi la nostra conoscenza delle altrui menti rimane qualcosa simile solo al deduttivo. Eppure sentiamo che la nostra esperienza di altre menti è immediata e non ha mai alcun dubbio nei confronti della realtà della nostra esperienza sociale. Non intendo ad ogni modo allo stato presente della nostra inchiesta costruire sulle implicazioni della nostra conoscenza di altre menti un argomento idealistico in favore della realtà di un io comprensivo. Tutto ciò che intendo suggerire è che l’immediatezza della nostra esperienza nello stato mistico non è senza un parallelo. Rassomiglia alquanto alla nostra esperienza normale e probabilmente appartiene alla stessa categoria. 4. Poiché la qualità dell’esperienza mistica deve essere sperimentata in maniera diretta, è ovvio che non può essere comunicata. Gli stati mistici rassomigliano più a sensazioni che a pensieri. L’interpretazione che il mistico o il profeta pone a contenuto della sua consapevolezza religiosa può essere trasmessa ad altri nella forma di proposizioni, ma il contenuto stesso non può essere trasmesso in questo modo. Pertanto nei seguenti versetti del Corano è la psicologia e non il contenuto dell’esperienza che viene data: A nessun uomo Dio può parlare altro che per Rivelazione, o dietro un velame, o invia un Messaggero il quale riveli a lui col Suo permesso quel che Egli vuole. Egli è l’Eccelso Sapiente (LXII, 51). Per la stella, quando declina! Il vostro compagno non erra, non s’inganna e di suo impulso non parla. No, ch’è rivelazione rivelata, appresagli da un Potente di Forze sagace, librantesi alto sul sublime orizzonte! Poi discese pèndulo nell’aria, s’avvicinò a due archi e meno ancora, e rivelò al servo Suo quel che rivelò. E non smentì la mente quel che vide. Volete voi dunque discuter quel che vede? Sì, ei già Lo vide ancora presso il loto di al-Muntahà presso al quale è il Giardino di al-Ma’wa quando il loto era coperto come d’un velo. E non deviò il suo sguardo, non vagò. E certo ei vide, dei Segni del Signore, il supremo! (LIII, 1-18). L’incomunicabilità dell’esperienza mistica è dovuta al fatto che è essenzialmente una materia di sensazioni inarticolate, non toccate dall’intelletto discorsivo. Va comunque notato che la sensazione mistica come tutte le sensazioni ha anche un elemento cognitivo; e lo è, io credo, a causa di questo elemento cognitivo che presta sé stesso alla forma dell’idea. Infatti, è la natura della sensazione a cercare espressione nel pensiero. Sembrerebbe che i due - sensazione e idea - siano gli aspetti non-temporale e temporale della stessa unità dell’esperienza interiore. Ma su questo punto non posso fare di meglio che citare il Professor Hocking che ha compiuto uno studio molto acuto della sensazione a giustificazione di una veduta intellettuale del contenuto della consapevolezza religiosa: ‘Che cos’è quella altra-che- sensazione in cui la sensazione può finire? Rispondo, consapevolezza di un oggetto. La sensazione è l’instabilità di un intero io consapevole: e ciò che riporterà la stabilità di quest’io non giace entro il nostro proprio confine, ma al di là di esso. La sensazione si spinge all’esterno, così come l’idea comunica con l’esterno: e nessuna sensazione è così cieca da non avere alcuna idea del suo proprio oggetto” [...]. Di particolare importanza sono nel Bal-i Jibril le quarantun quartine o ruba’yat (dalla radice araba r-b-‘ con il senso per l’appunto di “quattro”). Il ruba’i è una brevissima composizione lirica di quattro emistichi (misra‘), due versi, a rima a-a-b-a o in casi particolari a rima a-a-a-a: viene di solito usato per trasferire in poesia un pensiero, un’idea, una considerazione, una constatazione, e simili. Il ruba’i, reso celebre nella letteratura persiana da ‘Omar Khayyam, porta “spesso a possenti risultati estetici con la concisione obbligata impostagli dalla breve ed esilissima forma, e con l’abile uso del ‘ritorno’ dell’ultima rima dopo l’interruzione ritmica del terzo verso, il che fa del ruba’i come un circolo conchiuso e levigato di pensiero che mirabilmente si adatta all’aforisma scettico o alla eiaculazione mistica”. Il filo sottile che lega queste “quartine” è il rimpianto dei tempi passati e la constatazione della sterilità e della vuotezza del tempo presente: non c’è più devozione nella fede dell’Islam, persi come sono i musulmani nelle lotte intestine e nell’acquiescenza di fronte all’Occidente. La quartina n.21 sembra condensare tutte le altre, che ripetono questo concetto in forme e in momenti in apparenza diversi: La pazzia dell’amore non dura, Nei musulmani il sangue è acqua. Ranghi, cuori, preghiere confusi. I sentimenti profondi non durano. Anche se in maniera inconsapevole, queste “quartine” sembrano essere un’ideale continuazione del pensiero già espresso in Shikva e in Javab-i Shikva: un unico richiamo in tante forme differenti, ossia invitare i musulmani alla riscossa in nome delle glorie passate. Il vocabolo chiave in queste “quartine” è ‘ishq, un amore che brucia, che diventa amore mistico (soz-i Khuda’i, ‘ishq o masti), amore in genere (mahabbat), amore o sospiro di passione (ah-i sehr), un “amore” usato nel dualismo costante tra “cuore” (dil) e “ragione” (khirad, ‘aql) dove “la ragione è in lotta con il cuore, il cuore con la ragione” (ruba’i n.33). Il tono delle “quartine” è essenzialmente mistico: la personale esperienza mistica, il concetto dell’Io (Khudi), il conflitto tra ragione e cuore. Questo misticismo si svolge nel dilemma di tutta la vita di Iqbal, in primis, tra l’ateismo di Nietzsche e il misticismo di Rumi. Consapevole di questo contrasto nella sua personalità, Iqbal chiude il ghazal n.14 della seconda parte del Bal-i Jibril con questi emistichi: Tu solo, o apostolo di Dio, sei il mio sostegno. Il mio sapere è europeo, il mio credo è pagano. Acutamente – fa rilevare Alessandro Bausani – i ghazal o pseudo-ghazal della prima parte possono essere considerati come una sorta di “frammenti di un dialogo con Dio”, titolo che si addirrebbe, in fondo, a tutta la poesia iqbaliana. Segue un insieme, anch’esso senza titolo, di componimenti simili al ghazal (questa trasformazione interiore del ghazal è uno dei servigi più importanti resi da Iqbal alla stilistica poetica urdu) di diverso contenuto. Indi un insieme, ancora senza titolo, di “Poesie brevi”, in realtà quartine (due versi completi ossia quattro emistichi) ma non nel metro delle quartine tradizionali (ruba’iyyat). Infine, a chiusa della raccolta, un insieme di poesie strofiche, frammenti e altre composizioni difficilmente definibili formalmente, tutte con titolo, e a contenuto caratterizzato filosoficamente, politicamente e socialmente. Tra la prima parte e la seconda si inseriscono le grandi odi quali “Preghiera”, scritta nella moschea di Còrdoba, la “Moschea di Còrdoba”, la più sentita, dove Iqbal ebbe il permesso di recitare la preghiera canonica come ai vecchi tempi della dominazione araba dell’Andalusia, “Spagna”, “La preghiera di Tariq”, il primo conquistatore della Spagna nel 711-712, “Gusto e desiderio” scritta in Palestina nel dicembre 1931, e la serie relativa alla storia iniziale del mondo, “Gli angeli si congedano da Adamo che lascia il paradiso”, “Lo spirito della terra saluta l’avvento di Adamo”, e il dialogo tra “Gabriele e Satana”. Di particolare rilevanza è la lunga ode “Al coppiere”, scritta probabilmente nel 1934: si tratta di una ripresa del contenuto di “Khizr, la guida” (Il richiamo della carovana, n.144, pp.183-188). In sette stanze Iqbal ci dà una visione del mondo naturale, parla della decadenza della comunità musulmana e del suo rinascimento, ci presenta un panorama metafisico della vita e dell’universo, ci fa partecipi dei segreti dell’Io e della via da intraprendere. Molte possono essere le chiavi di lettura del Bal-i Jibril: un ricordo metafisico della storia umana, un libro di poesie da leggersi come tali, un Javed-namah in forma frammentaria. Nel 1936 Iqbal pubblicò la sua terza opera poetica in urdu, Zarb-i Kalim [La verga di Mosè], un titolo allegorico, con l’evidente allusione al colpo del bastone contro la roccia per far scaturire l’acqua - Mosè è, secondo la tradizione teologica musulmana, “colui che parlò con Dio (Kalim)”. Mosè - come scrive Bausani - è nell’Islam uno dei più efficaci simboli della potenza profetica di contro alla potenza magico-satanica dei maghi di Faraone. È naturale che il contrasto dovesse attirare Iqbal, che vede nella potenza puramente magica e ‘pagana’ dell’Europa ‘materialistica’ la nemica della potenza veramente sacra e profetica che il mondo musulmano dovrebbe far sua di nuovo, dopo la lunga decadenza. Inferiore all’opera precedente sotto il punto di vista artistico, Zarb-i Kalim, che è dedicato a colui che fu il protettore di Iqbal negli ultimi anni della sua vita, il navvab di Bhopal, sir Hamidullah Khan, chiarisce lo scopo nei brevi versi di dedica in cui si dice che “sul campo di battaglia a nulla serve il suono del liuto”. Il sottotitolo stesso dell’opera, “Dichiarazione di guerra all’età moderna”, e la suddivisione degli argomenti in ampie sezioni sono di per sé stessi significativi. “L’Islam e i musulmani” è la prima e più ampia sezione; seguono “Educazione e cultura”, “La donna”, “Letteratura e belle arti”, “La politica d’Oriente e d’Occidente”, e infine i “Pensieri di Mihrab Gul l’Afghano”, un immaginario saggio afghano che è la voce stessa del Poeta e dalla cui bocca escono le considerazioni politico-culturali-poetiche di Iqbal. L’ultima opera di Iqbal, Armughan-i Hijaz [Il dono del Hijaz], uscì postuma nel 1938 poco dopo la morte: contiene poesie in persiano e in urdu, a forte contenuto “concettuale”. Non per nulla Iqbal ritornò al ruba‘i, quella forma poetica che gli sembrò la più adatta ad esprimere il suo pensiero. A conclusione di queste note c’è da menzionare un diario che il poeta iniziò il 27 aprile 1910, ma interruppe, non si sa per quale ragione, dopo pochi mesi: scritto in inglese, con il titolo di Stray Reflections, fu parzialmente pubblicato a guisa di pensieri o riflessioni in giornali dell’epoca. Si trattava probabilmente di un diario cui affidare le proprie emozioni in un difficile periodo della vita del poeta. Ritornato dall’Europa dove aveva visto il contrasto tra due differenti civiltà, allora una dinamica, l’altra statica, Iqbal si trovava ad un bivio della sua esistenza: professore di filosofia al Government College di Lahore, era combattuto tra il desiderio di diventare un fautore della riscossa dei musulmani e la sua posizione di dipendente del raj britannico. A ciò si aggiungevano le difficoltà finanziarie e l’insoddisfazione per un matrimonio combinato secondo le usanze del tempo. Il mese precedente, in marzo, Iqbal si era recato nel Deccan, ad Haidarabad, per esplorare le possibilità di un suo trasferimento in uno stato principesco in maniera da non dover dipendere direttamente dal governo inglese: ma ne era rimasto disilluso ché l’atmosfera culturale stagnante non era migliore di quella del Panjab e la situazione politica peggiore ché il nizam, il sovrano, era completamente succubo degli inglesi. L’anno prima, in una lettera all’amica Atiyya Begam, il 9 aprile 1909, aveva espresso quei sentimenti che lo portarono a dare le dimissioni dal Government College: “Il mio scopo è di fuggire da questo paese il più presto possibile. [...]. La mia vita è terribilmente triste. Essi [i genitori] mi hanno imposto una moglie. Ho scritto a mio padre che non aveva alcun diritto a concludere il mio matrimonio. [...]. Sono un essere umano ed ho diritto alla felicità.” E nella lettera successiva, il 17 aprile: “L’altra notte sono stato nel paradiso e ho attraversato i cancelli dell’Inferno. Ho trovato il luogo terribilmente freddo. Mi fu detto, quando mi sono meravigliato, che quel luogo è freddo di natura; ma che sarebbe diventato molto caldo poiché ognuno avrebbe portato il proprio fuoco dal mondo”. Si tratta di un appunto prezioso relativo alla poesia Sair-i falak [A zonzo nell’empireo] che ne spiega i versi, in particolare gli ultimi sei: Questo luogo gelido è nomato inferno, Il suo seno è privo di fuoco e di luce. Il calore delle fiamme che l’avvolgono Spaventa gli uomini in cerca di un monito. Quando la gente della terra arriva qui Si porta appresso l’ultima scintilla. La disillusione del poeta di ritorno da Haidarabad era tale che scrisse all’amica il 7 aprile 1910 in questi termini: “Ricevo lettere da varie parti del paese affinché io pubblichi le mie poesie in forma di libro. Un signore che tu hai forse conosciuto si è offerto a fare ciò – scrivere un’introduzione, far stampare il libro in una delle migliori tipografie in India e farlo rilegare in Germania. Ma non sento entusiasmo per la poesia: mi sento come se si fosse spenta in me l’ispirazione e mi avessero privato dell’immaginazione. Forse la poesia su Aurangzeb – di cui ho visitato di recente la tomba – sarà l’ultima”. Questo terribile periodo di pessimismo passò e la vita del poeta andò avanti come descritto in precedenza. Allama Iqbal, com’era chiamato dai suoi seguaci, morì a Lahore il 21 aprile 1938: dalla nascita del Pakistan la giornata è diventata ricorrenza nazionale. Una delle sue ultime quartine, pubblicate postume, recita: La gioia del passato tornerà o non tornerà, La brezza dal Hijaz tornerà o non tornerà? L’ultima ora di questo faqir è già arrivata. Un altro interprete tornerà o non tornerà? 3. IQBAL E IL MODERNISMO In un mondo in preda alle divisioni e ai distinguo, alle separazioni e ai contrasti in nome di un qualcosa che non si sa che cosa veramente sia, il messaggio di Muhammad Iqbal giunge ancor oggi attuale a distanza di un secolo. Cento anni sembrano pochi, ma sono molti in un periodo storico che ha visto due guerre mondiali, la proliferazione atomica non sempre per scopi pacifici, i tanti conflitti locali a macchie di leopardo un po’ dappertutto, il nascere di ideologie, sotto l’ombrello onnicomprensivo della religione, che nulla hanno a che fare con essa. I tre anni trascorsi in Europa, dal 1905 al 1908, furono per Iqbal significativi non solo dal punto di vista della sua istruzione ma anche e soprattutto per lo sviluppo del suo pensiero politico e sociale. Prima di lasciare l’India, Iqbal, come tutti gli indiani, musulmani e non, era un sostenitore del nazionalismo, posizione ampiamente giustificata dalla situazione politica di quegli anni. Un esempio è il “Canto dell’India” [Tarana-i Hindi] che nella stesura originale dell’ottobre 1904 aveva il significativo titolo di “Il nostro paese” [Hamara Desh], dove non si parlava di musulmani, hindu e simili ma di indiani e della patria India. Questa comunanza era messa in risalto ancor più nella successiva poesia a sfondo filosofico-politico “Un nuovo altare” [Naya shivala]: Ti dirò il vero, o brahmano, se non ti secca, Gli idoli del tuo tempio vanno invecchiando. L’odio verso gli altri hai appreso dagli idoli, Al predicatore dio ha insegnato solo la lite. Stanco, ho lasciato il tempio e la moschea, Ho abbandonato il sermone e le prediche. Pensavi che c’era Dio negli idoli di pietra, Per me ogni particella della patria è Dio. In Europa il concetto di nazionalismo risaliva all’epoca dell’Illuminismo e alla formazione degli Stati moderni; nel mondo islamico il problema si pose nell’epoca del colonialismo sotto la pressione di una concezione più moderna di vita. Quando Iqbal iniziò ad affrontare il problema dei musulmani, in particolare dei musulmani indiani, l’idea del nazionalismo nel mondo islamico era confinata ad una élite della classe media emergente. Era stato Iqbal ad anticipare “le linee guide da seguire per rendere popolare il nazionalismo nel mondo musulmano”, in un periodo in cui cercava di conciliare una forma di collaborazione tra hindu e musulmani accettabile per la maggioranza e per le minoranze. Il concetto di patria è al centro del pensiero di Iqbal e la religione diventa un fattore decisivo nella vita della nazione: la patria, più che la religione, costituisce il fulcro dell’affetto e della lealtà dei cittadini – al posto dei vecchi templi un “nuovo tempio”. In un’altra poesia di questo periodo, “Lamento di dolore” [Sada-i dard], Iqbal lamenta la mancanza di amicizia tra Musulmani e Hindu, che è la causa del ritardo dell’ indipendenza dell’India: La nostra terra fomenta reciproche inimicizie. Quale unità! la vicinanza è causa di separazione. Inimicizia e violenza sono al posto della sincerità, Separazione e violenza nel raccolto di un granaio. Nel complesso, le poesie scritte sino al 1905 denotano la disillusione del poeta per le tristi condizioni dei musulmani nel subcontinente indiano e in generale in tutto il mondo islamico. Un compendio è la toccante lirica intitolata “Sicilia” [Siqilliya], frutto della visione dell’isola da bordo della nave nel suo viaggio dall’India all’Inghilterra. “Sicilia” è uno struggente ricordo delle antiche glorie dell’isola durante il periodo arabo (827-fine XI secolo). Ad Iqbal la Sicilia appare di lontano come la tomba della civiltà araba. Un tempo – dice – gli abitanti del deserto solcavano il Mediterraneo con le loro navi agili, facendo risuonare tutta l’isola del grido di battaglia Allah o akbar (Iddio è grande); ora, invece, tutto piange nel mondo dell’Islam: piange il poeta persiano Sa‘di, “l’usignuolo di Shiraz”, sulla Baghdad distrutta nel 1258 per mano dei mongoli di Hulagu Khan, piange il poeta urdu Dagh sulla Delhi conquistata dagli Inglesi, piange il poeta arabo Ibn Badrun su Granada caduta in mano ai cristiani nel 1492, e piange infine il poeta stesso, Iqbal, che riporterà in patria una visione della decadenza dell’Islam: O Sicilia! tu che sei l’onore e l’orgoglio del pelago, Come guida e custode tu rimani nell’immenso mare, Possa la guancia dell’acqua essere per sempre riparo, Possa la tua immagine essere di conforto al viandante. Possa la tua vista rimanere nell’occhio del viaggiatore E l’onda danzare per sempre sulle rocce delle tue coste. Tu fosti un tempo la culla della civiltà di quel popolo, Uno spettacolo fu un tempo la tua universale bellezza. Questa nostalgia per il passato si ritrova, in varie forme e sotto vari aspetti, in tutta l’opera poetica di Muhammad Iqbal: non è però il suo un rimpianto sterile. Anzi, sarà proprio questo ricordo nostalgico del passato che porterà nel 1947 alla creazione di una nazione musulmana nel subcontinente indiano, il Pakistan. E quando il poeta parla di nazione [millat], non adopera il termine nel senso occidentale di nazione ma nel senso sopranazionale di intero mondo dell’Islam. Attraverso il velo allegorico della poesia Iqbal volle stimolare i suoi correligionari all’azione; nel ricordare ai musulmani il loro passato dimenticato, Iqbal volle dire che l’Islam non è solo un insieme di rituali ma è nella sua essenza un atteggiamento di vita. Ai suoi correligionari fermi nella passività e sopraffatti da un senso di frustrazione portò un messaggio di speranza ricordando loro le glorie e le gesta degli antenati. Durante il soggiorno in Europa l’orizzonte di Iqbal si allargò; il poeta osservò i progressi della scienza e i benefici nelle condizioni di vita delle popolazioni, ma si rese conto che il nazionalismo portava ad una competizione tra le nazioni europee. Prima di venire in Europa il suo atteggiamento era stato quello di un sufi e di un romantico; alcuni mesi dopo aver vissuto in occidente, Iqbal abbandonò sufismo e romanticismo, mise da parte il nazionalismo e diventò un fervente sostenitore del panislamismo. Secondo lui, gli europei avevano perso la fiducia nella vita dello spirito e nello sviluppo di una società basata sull’uguaglianza, sulla giustizia e sulla verità – sembra di sentire parole dei nostri giorni. Poté toccare con mano i risultati pratici del nazionalismo che avrebbe condotto l’Europa alla catastrofe di una guerra mondiale. Il nazionalismo aveva creato barriere artificiali tra gli uomini e tra le nazioni; non aveva una base morale e spirituale ed era, anzi, diventato una fonte di conflitti tra i popoli dividendoli. Se quest’idea fosse stata diffusa nel mondo dell’Islam, avrebbe causato divisioni e incomprensioni, ritardando all’atto pratico anche l’indipendenza dell’India. In una lirica, “Marzo 1907”, mise in guardia l’Occidente e l’Oriente dai pericoli insiti in un nazionalismo basato su razza, colore e confini geografici, invitando l’Oriente a non cadere nell’errore che avrebbe portato l’Europa alla catastrofe della guerra. E fu più esplicito in una lirica successiva “Il mondo dell’Islam” [Dunya-i Islam]: Chi discriminerà in base al colore e alla razza, perirà, Si tratti del nomade turco o dell’Arabo di alto rango. Successivamente spiegò così il suo atteggiamento: Ho ripudiato il concetto di nazionalismo sin da quando questo non era noto né in India né nel mondo islamico. Sin dall’inizio mi apparve chiaro, dagli scritti di autori europei, che il nazionalismo era l’arma di cui aveva bisogno l’Europa per scopi imperialistici, da diffondere nei paesi musulmani per rompere l’unità religiosa. Chiarendo in seguito questo concetto, forse constatando l’esistenza di stati nazionali nel mondo islamico, anche se sotto regimi coloniali. Nella sesta delle conferenze dedicate alla ricostruzione del pensiero religioso nell’Islam disse: Mi sembra che Dio stia indicando che l’Islam non è né nazionalismo né imperialismo ma una lega di nazioni che riconoscono confini artificiali e distinzioni razziali solo per comodità e non per restringere l’orizzonte sociale dei suoi membri”. Concetto che aveva già sviluppato nella quinta conferenza, dedicata allo spirito della cultura musulmana: [...] la crescita del nazionalismo territoriale, con l’enfasi posta su quelle che sono chiamate le caratteristiche di una nazione, ha piuttosto portato a uccidere il più ampio elemento umano nell’arte e nella letteratura dell’Europa. È stato diversamente nell’Islam: qui l’idea non era né un concetto filosofico né un sogno poetico: come movimento sociale lo scopo dell’Islam era quello di fare dell’idea un fattore vivo nella vita quotidiana del musulmano e condurlo in maniera silenziosa e impercettibile alla piena fruizione di questo concetto”. In parole povere, il nazionalismo che era troppo ristretto per Iqbal si tramutò in patriottismo, nel senso di atteggiamento spirituale verso il proprio paese anche se l’ideale ultimo era la lealtà alla “comunità” [ummah], un concetto più ampio di quello della madrepatria. La comunità diventava per Iqbal un’entità sopranazionale al posto delle realtà geografiche. Gli anni trascorsi in Europa e il suo studio approfondito della storia avevano messo in luce in lui i pericoli insiti nel nazionalismo e gli avevano fatto quasi prevedere la tragedia di una prima guerra mondiale che si sarebbe conclusa con devastazioni e milioni di morti, seguita da una seconda ancor più devastante, causate dal nazionalismo e dagli “ismi” connessi. Gli “ismi” – pensava Iqbal – sono formule e prescrizioni per la soluzione del problema, che nessuno ha mai risolto: sulla scena sono apparsi il capitalismo, l’imperialismo, il militarismo, il socialismo, il comunismo, e altri “ismi” appariranno, ma hanno tutti fallito perché nessuno di questi ha portato alcun sollievo all’umanità che soffre. Il problema fu affrontato nuovamente da Iqbal in occasione del viaggio a Londra nell’autunno del 1931 per partecipare alla Seconda Conferenza della Tavola Rotonda relativa al destino dell’India; per inciso, vista l’impossibilità di un accordo tra musulmani e hindu, pochi mesi dopo, nel marzo 1932, Iqbal proporrà a Lahore la creazione di due aree separate, il Pakistan e l’India. Invitato a parlare all’università di Cambridge, dove aveva studiato negli anni giovanili, Iqbal disse agli studenti di non sottovalutare i danni prodotti dall’ateismo e dal materialismo. Consapevole dei cambiamenti che si sarebbero prodotti nella società islamica, nei suoi scritti analizzò le tensioni causate dal conflitto tra modernismo e medievalismo. Egli stesso era un modernista con dei limiti che si era imposto: il suo dinamismo e il suo umanesimo erano moderni, ma mai portati all’estremo. Conoscendo l’impatto delle sue parole, non ne ignorava l’influenza sui suoi correligionari: era così costretto ad un modus vivendi, per non trovarsi in aperta polemica con la classe religiosa rappresentata per la gran parte da mullah di mentalità ristrette e legati più alla lettera che allo spirito del Corano. Ce lo testimonia un fatto di cronaca, che Iqbal descrisse in una poesia poco nota, poiché non è delle migliori, ma significativa del clima dell’epoca, intitolata “Virtù e vizio” [Zuhd aur rindi], scritta prima del 1905, cioè prima di recarsi in Inghilterra: con un tono in apparenza leggero, quasi con nonchalance, risponde alle accuse di un mullah che abitava nel suo quartiere: Il sant’uomo chiese un giorno ad un mio amico: Iqbal, che è una colomba dell’albero di qualità, Come si conforma agli obblighi della shar’iah? [...] Sento dire che non ritiene l’hindu un miscredente, Il suo credo è invero il risultato della sua filosofia. [...] Considera la musica un elemento dell’adorazione, Ha forse intenzione di farsi beffa della religione? [...] La notte suona musica, il mattino recita il Corano. Sino ad oggi non abbiamo capito questo segreto. Ma i miei discepoli mi hanno assicurato che La sua vita è pura e immacolata come l’alba. Egli non è Iqbal, ma è un insieme di opposti. Il cuore un libro di saggezza, l’indole strana. Non riesco proprio a capirne la personalità, Sembra che stia creando un altro tipo di Islam. [...] Un giorno il degno asceta mi incontrò per la via E la vecchia storia ritornò nella conversazione. Mi disse:” Quella lamentela era frutto di amore, Avevo il dovere di indicarti la via della shari‘ah”. Gli risposi: “Non ho nulla di che lamentarmi, io. Era vostro diritto in qualità di mio vicino di casa. [...] Se voi non conoscete la mia vera personalità, La vostra onniscienza non ne è scalfita affatto. Io stesso non conosco la mia vera personalità, Profonda è l’acqua del mare dei miei pensieri. Da tempo anch’io anelo di conoscere Iqbal, Da tempo verso lacrime per questa separazione. Iqbal stesso non conosce la sua vera personalità. Non c’è beffa alcuna nelle mie parole, lo giuro. L’altra classe con la quale Iqbal doveva fare i conti era quella dei musulmani occidentalizzati, i meno qualificati a comprendere il vero spirito del modernismo e l’essenza della cultura occidentale. Nella loro superficialità e ignoranza delle tradizioni i musulmani occidentalizzati si atteggiavano a liberali e a liberi pensatori, ma il loro modo di essere liberali dimostrava un approccio soggettivo e personale dei problemi sociali, basato su idee frammentarie piuttosto che su una comprensione della situazione globale. A questa classe, ancor più che a quella religiosa, Iqbal indirizzò la sua critica sin dalle prime pagine della conferenza introduttiva del Reconstruction of Religious Thought in Islam: Il nostro unico timore è che l’esteriorità abbagliante della cultura europea possa arrestare il nostro movimento e non farci raggiungere la vera natura intima di quella cultura. [...] Con il risveglio dell’Islam è quindi necessario riesaminare, con spirito indipendente, il pensiero dell’Europa e quanto le mète da lei raggiunte possono aiutarci nella revisione e, se necessario, nella ricostruzione del pensiero teologico nell’Islam. [..] Lo scopo principale del Corano è di risvegliare nell’uomo una maggiore consapevolezza delle sue relazioni con Dio e l’universo. Se una critica si può muovere al modernismo di Iqbal è quello di aver sottovalutato l’importanza e l’impatto sociale della struttura economica nella vita del popolo. Nelle sue conferenze non ha quasi mai, se non in qualche verso dell’opera poetica, condannato la piaga dello sfruttamento dei proprietari terrieri, veri signori feudali, forse perché si sarebbe scontrato con una classe potente di cui aveva bisogno per il suo piano di liberalizzazione delle masse, forse perché il problema esulava dalla sua visione filosofica. Un paio di brevi poesie satiriche nella prima delle opere poetiche in urdu, “Il Richiamo della Carovana” [Bang-i Dara], e una breve lirica di otto versi “La terra è di Dio”, nel successivo “L’ala di Gabriele” [Bal-i Jibril], accennano al problema: La notte scorsa una zanzara mi narrò L’intera storia di tutti i suoi insuccessi. Mi danno solo una goccia di sangue In cambio del lavoro di un’intera notte. E il proprietario senza sforzo alcuno Ha cavato al contadino tutto il sangue. (147.20) Il possessore della fabbrica è un uomo vano. Ama i piaceri, il duro lavoro non fa per lui. Il comando di Dio è: all’uomo il suo sforzo. Il capitalista non ha diritto al frutto del lavoro. (147.27) E i due versi finali della lirica il cui titolo è ripreso da un hadith, ossia un detto del Profeta: Latifondista! questa terra non è tua, non è tua, Non è dei tuoi padri, non è tua, non è mia. Troppo poco per costituire una denuncia nei confronti di una vera e propria piaga sociale, ancor oggi attuale anche se in forme limitate, sufficienti per darci un’idea del pensiero di Iqbal sull’argomento. I tempi non erano allora maturi: altri problemi prioritari incombevano quali l’indipendenza, la spartizione, l’incognita della direzione che avrebbe preso l’Islam negli anni avvenire, senza la soluzione dei quali non era possibile affrontare i problemi materiali di una comunità afflitta politicamente e socialmente da secoli di frustrazione e disillusione. Tra le due guerre mondiali altri “ismi”, termine da Iqbal – come già visto – aborrito, nacquero: fascismo, nazismo, franchismo. Di ritorno dalla Seconda Conferenza della Tavola Rotonda di Londra nel novembre 1931, il poeta, che desiderava rendersi conto di persona del regime fascista, accettò un invito dell’Accademia d’Italia a parlare a Roma il 28; il giorno prima fu ricevuto da Mussolini a Palazzo Venezia. La notizia della visita e della conferenza fu pubblicata nei maggiori quotidiani: “Il Giornale d’Italia” pubblicò un lungo articolo, non firmato, abbastanza equilibrato, incentrato solo sulla poesia di Iqbal. La conferenza del poeta all’Accademia d’Italia fu in inglese, su “un tema etico-religioso”, secondo quanto riportato da tutti i giornali, evidentemente una “velina” trasmessa dal Minculpop. Malgrado le mie ricerche di archivio, della conferenza non è rimasta traccia; solo alcuni anni fa, in una biografia del poeta pubblicata a Lahore è comparsa una “scaletta” di mano del poeta, il che ci conferma l’inesistenza di un testo scritto, pronunciato “a braccio” sulla scorta di appunti. Cinque erano i punti-guida: 1 – il movimento dell’Islam verso l’Occidente e quello della Russia verso l’Oriente. 2 – Cerchiamo di comprenderli; esistono nel mondo d’oggi tre forze: la civiltà occidentale, il comunismo, l’Islam. 3 – Non si può negare che l’Islam ne ha perso il controllo: si muove verso l’Occidente; questa non è decadenza ma risveglio. 4 – L’Inghilterra e l’Islam: aspetto politico-economico. 5 – Il valore dell’amicizia dell’Islam. Importanti ai nostri fini sono il punto 1 e il punto 5. Il primo è significativo del desiderio di Iqbal di aprire un dialogo con l’Europa, un ponte tra Oriente e Occidente, e si basa su quanto aveva scritto nella prima conferenza filosofica “Conoscenza ed esperienza religiosa”: Negli ultimi cinque secoli il pensiero religioso nell’Islam è rimasto in pratica stazionario. Ci fu un tempo in cui il pensiero europeo ricevette ispirazione dal mondo dell’Islam. Tuttavia, il fenomeno più caratteristico della storia moderna è l’enorme rapidità con la quale il mondo dell’Islam si muove spiritualmente verso l’Occidente. Non c’è nulla di errato in questo movimento perché la cultura europea, nel suo aspetto intellettuale, è solo un ulteriore sviluppo di alcune delle fasi più importanti della cultura islamica. Il nostro unico timore è che l’esteriorità abbagliante della cultura europea possa arrestare il nostro movimento e non farci raggiungere la vera natura intima di quella cultura.” Il secondo punto relativo all’amicizia dell’Islam riguardava il problema degli altri “ismi”, e cioè che il fascismo in Italia, il nazismo in Germania, il franchismo in Spagna erano a favore dell’Islam ma solo sulla base dei propri interessi politici. L’apertura di Iqbal verso il fascismo – scrisse poco tempo dopo due poesie su Mussolini, una di apparente solidarietà, l’altra negativa – fu da molti in quegli anni considerata di sostegno ai regimi totalitari e mal compresa; al contrario, Iqbal, che aveva accettato di parlare a Roma, di fronte agli intellettuali italiani, voleva capire il ruolo dell’Italia in Europa, anche perché il regime non nascondeva la sua anglofobia. In un’intervista poco nota, concessa da Iqbal nella sua casa di Lahore, nel 1936, al diplomatico italiano Pietro Quaroni, che si recava da Roma a Kabul per assumere la guida della Legazione italiana in Afghanistan, e pubblicata in un riassunto solo vent’anni dopo, Iqbal chiarì il suo pensiero senza mezzi termini: non era più di fronte ad un pubblico di ascoltatori ma nella sua casa nel quartiere di Anarkali, ed erano trascorsi cinque anni dalla sua visita in Italia, con i grandi mutamenti che erano intervenuti nella politica dell’Europa e del sub-continente indiano. Era l’epoca della proclamazione dell’impero, in cui cominciavano a circolare le prime teorie sulla spada dell’Islam e sul Protettore dell’Islam. Vale la pena riascoltare alcuni passi che l’ambasciatore Quaroni riportò a memoria: “Se volete dichiararvi amici, o protettori dell’Islam, e se volete che noi cominciamo a crederci, allora dovete cominciare con il rispettarci, con il dimostrarci che ritenete la nostra religione buona come la vostra. Potrebbe spiegarmi perché l’Italia, proprio adesso, vuole ridiventare Rum? Finché l’Italia resta l’Italia, anche se è un Paese cattolico, purché rispetti la nostra religione come noi rispettiamo la sua, non ci sono delle ragioni per non andare d’accordo. Ma se l’Italia vuole ridiventare Rum, allora non si faccia illusioni: essa troverà contro di sé tutto il mondo dell’Islam come all’epoca del Rum antico. Noi vogliamo liberarci dagli Inglesi, ma non certo per mettere qualcun altro al loro posto. Anzi, a dire la verità, preferiamo liberarci da noi, con i nostri mezzi”. Nel novembre 1932 Iqbal ritornò a Londra per la Terza e ultima Conferenza della Tavola Rotonda: il Congresso Nazionale Indiano non era rappresentato e Iqbal abbandonò la seduta quasi subito. Dopo aver tenuto in dicembre, all’Aristotelian Society di Londra la settima conferenza “Is religion possible?”, si recò in Spagna per incontrare Miguel Asin Palacios, l’autore della controversa Escatologia musulmana en la Divina Comedia, apparsa nel 1919. Nel suo lavoro lo studioso iberico aveva descritto le analogie esistenti tra la costruzione del mondo ultraterreno nella Commedia e l’escatologia musulmana: a sostegno della sua tesi portava comparazioni tra episodi dell’opera dantesca e passi della letteratura araba. All’epoca gli fu controbattuto, in particolare dal mondo accademico italiano, che Dante non conosceva l’arabo e che le opere della letteratura araba cui si riferiva l’Asin Palacios non erano state tradotte in alcuna lingua europea al tempo di Dante. In realtà queste controtesi, valide di per sé stesse, erano state dettate in parte più da un senso di consorteria che da un approccio veramente critico: si trattava di fare quadrato contro l’Islam come se la fama di Dante potesse essere diminuita dalla conoscenza e da un uso di testi islamici e non viceversa accresciuta. Trent’anni dopo, nel 1949, l’orientalista italiano Enrico Cerulli pubblicava Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti arabo- spagnole della Divina Commedia: nella prima parte riportava i testi francese e latino relativi al viaggio celeste del Profeta e alla sua visione dei cieli e dell’inferno, nella seconda i testi, pressoché inediti, di autori medievali, contenenti notizie sulle tradizioni escatologiche musulmane. Lo scopo di questa seconda parte era quello di valutare quanto l’Occidente conosceva delle idee musulmane sul Paradiso e sull’Inferno, indipendentemente dal Libro della Scala, nell’originale arabo al-mi’raj [l’ascensione del Profeta], che era una traduzione latina e francese dal castigliano, a sua volta derivata dall’arabo. A questi aspetti dell’osmosi Islam-Occidente pensava Iqbal quando scriveva le sue conferenze filosofiche, dicendo che,“con il risveglio dell’Islam era necessario esaminare, in uno spirito indipendente, quanto il pensiero europeo e le conclusioni raggiunte potevano aiutare i musulmani nella revisione e, se necessario, nella ricostruzione del pensiero teologico dell’Islam”. Anche se il libro di Asin Palacios non è stato rintracciato nella biblioteca personale di Iqbal, il poeta ne conosceva il contenuto: nel 1919, Thomas Arnold, suo professore a Lahore, aveva pubblicato una recensione del libro di Asin Palacios che non era sfuggita all’attenzione di Iqbal. Non è qui fuori luogo ricordare che il mondo accademico italiano fu il primo a rendersi conto del valore del Javed namah: qualche mese dopo la pubblicazione del magnum opus, l’islamista Maria Nallino la recensiva ampiamente, parlando di “Divina Commedia dell’Oriente“ e di “poema celeste”, titolo con il quale l’opera fu tradotta in italiano, prima traduzione al mondo, da Alessandro Bausani nel 1952. Profetico l’ultimo messaggio di Allama Iqbal ai popoli dell’Oriente e dell’Occidente, radiodiffuso il 1° gennaio 1938: L’età moderna è orgogliosa dei progressi nel campo della conoscenza e degli sviluppi senza pari della scienza: nessun dubbio che si tratti di un orgoglio giustificato. Oggi spazio e tempo sono annullati e l’uomo ottiene straordinari progressi nello svelare i segreti della natura e nel sottometterne le forze al proprio servizio. Nonostante tutti questi sviluppi, la tirannia dell’imperialismo progredisce all’estero, celandosi sotto la maschera della democrazia, del nazionalismo, del comunismo, del fascismo e Dio sa sotto quali altri nomi: sotto queste maschere in ogni angolo della terra. Lo spirito di libertà e la dignità dell’uomo sono calpestati in una maniera che non trova paragoni neppure nei periodi più bui della storia [...]. Macchine di distruzione, create dalla scienza, spazzano via le pietre miliari delle conquiste culturali dell’umanità. I governi, non direttamente impegnati in questa tragedia di fuoco e di sangue, succhiano il sangue dei popoli più deboli in termini economici. È come se il giorno del giudizio fosse arrivato sulla terra, quando ognuno si preoccupa di salvare la pelle e non si ode voce alcuna di simpatia e fratellanza umana”. Il 18 febbraio, in una delle ultime lettere, scrisse: “Ho speso metà della vita a spiegare l’idea di nazione musulmana [millat], perché sentivo che l’idea politica europea [di nazionalismo territoriale] era molto pericolosa per l’Asia, in particolare per l’Islam”. Vito Salierno BAL-I JIBRIL L’ALA DI GABRIELE Alzati e prepariamo i bagagli per il viaggio del nuovo sole, E rinfreschiamo lo spirito combusto della sera e del mattino Il cuore del diamante può essere aperto dalla foglia di un fiore Nulla può produrre sugli sciocchi un discorso gentile e delicato (Bhartrihari) PARTE PRIMA 1. GHAZAL N.1 Nel santuario dell’Essere s’ode il mio grido di desiderio! Nel tempio dei Suoi nomi suona il grido “Iddio ci aiuti”! Huri e angeli sono prigionieri della mia immaginazione, La Tua fulgente manifestazione attraversa il mio sguardo! Sebbene io vada alla ricerca e nella moschea e nel tempio, Il mio grido d’angoscia preoccupa la Ka’ba e Somnath. A volte il mio sguardo attento oltrepassa l’esistenza tutta, A volte viene afferrato tutto nella rete della superstizione! In che calamità sei Tu caduto svelandomi tutto il mondo, Un segreto avrei dovuto essere entro il cuore del cosmo! 2. QUARTINA N.1 Non è rimasto vino nella tua caraffa? Dimmi, non sei tu il mio coppiere? Ne ho bevuta una goccia dall’oceano. Questa è avarizia, non è provvidenza! 3. GHAZAL N.2 Se le stelle devïano, di chi è il cielo, è Tuo o mio? Perché curarmi del mondo? è il mondo Tuo o mio? Se l’eternità non conosce l’affanno della passione, Di chi la colpa, o Signore? l’eternità è Tua o è mia? Alle prime luci dell’alba egli osò ribellarsi, perché? Come posso saperlo? era Satana amico Tuo o mio? Muhammad è Tuo, Tuoi anche Gabriele e Corano, Ma di chi è l’interprete delle parole, è Tuo o mio? E la stella che illumina il mondo co’l suo splendore, E l’uomo di fango, con la sua caduta, Tuoi o miei? 4. GHAZAL N.3 Splende la Tua treccia, rendila ancora più splendente, Rapisci la ragione e la saggezza, il cuore e lo sguardo. Nel velo possa rimanere l’amore, nel velo la bellezza, O manifestati Tu stesso o rendi manifesto me stesso. Tu sei l’oceano immenso, io sono un piccolo ruscello. Possa Tu tenermi tra le Tue sponde, o lasciarmi fuori. Io sono conchiglia, in mano Tua è l’onore della perla, Io sono un semplice guscio, fammi una perla regale. Se il fato non mi ha concesso di cantare la primavera, Fa’ di questo fievole respiro un uccello di primavera. Perché mi fu ordinato di lasciare il giardino celeste? Ho ancora tanto da fare nel mondo, aspettami un po’. Nel giorno del Giudizio, davanti al libro delle opere Svergognami pure, ma vergognati un po’ anche Tu. 5. GHAZAL N.4 Ascolta il mio lamento, o Signore, che Ti tocchi o no, Questo tuo servo libero non chiede riparazione alcuna. Questo pugno di polvere, vento gelido, cieli immensi, È gentilezza o crudeltà, il piacere che provi nel creare? Nell’aria del prato non è attecchita la corolla del fiore, È questa una stagione di primavera, un vento prospero? È vero, povero e imperfetto io sono, o mio Signore, ma Non furono gli angeli quelli che popolarono il deserto? Nelle mie preghiere vengono richiesti nuovi tormenti Da quel deserto nudo, da quel Tuo mondo vacillante! Chi ami accettare la sfida dei pericoli non si rivolge Verso quei giardini dove non sia pronto un cacciatore! Ai Tuoi serafini non è sufficiente il grido dell’ardore, Questo è un affare di esseri che abbiano altre capacità! 6. GHAZAL N.5 Che amore può esserci per una vita che è solo prestito? Che amore tra chi è immortale e chi vive solo a tempo? L’amore, che il soffio della morte spegne come candela, Non vale il palpito e il piacere del calore e dell’attesa. La mia gioia? è l’ardore di un respiro, è inutile, è vano. Davvero inutile è per la scintilla mescolarsi alla fiamma. Donaci, prima, una vita eterna e senza presenza di morte. E vedrai gusto nuovo e passione nuova nel cuore instabile. Dacci una spina che possa pungerci il cuore per sempre, Dacci, o Signore, un dolore che possa pungerci senza fine. 7. QUARTINA N.2 Fa’ dei nostri cuori il centro dell’amore, Fa’ di essi gli amici del santo recinto. Tu che hai concesso loro i mezzi di vita, Concedi loro anche la forza di Haidar. 8. GHAZAL N.6 La mia polvere, una volta dispersa, non torni più cuore, Quanto ora è una difficoltà non torni ad essere difficoltà. Nel Paradiso non mi spingano le huri a cantare ancora, Il mio petto che brucia non riscaldi le assemblee mai più. Lasciata la casa, non senta il viandante il ricordo mai più, La nostalgia della casa non colpisca il mio petto mai più. L’amore ha fatto di me un oceano senza confini e sponde, La consapevolezza di me stesso non diventi una sponda. Nel mondo senza colori e odori il mio andare vagando Non diventi, non diventi una favola da cercare senza fine. Dall’ascesa dell’uomo di fango sono spaventate le stelle, Che questa stella infranta non diventi luna pura e perfetta. 9. GHAZAL N.7 Il mondo è sottosopra, le stelle vanno veloci, Coppiere! In ogni atomo è il battito del Dì del Giudizio, Coppiere! Dalla riunione di Dio è stata portata via la dote della fede, E l’ateismo è stato rivestito in abiti attraenti, o Coppiere! La medesima innata malattia! un cuore senza controllo! Il rimedio è sempre l’acqua datrice di gioia, o Coppiere! Nel tempio del cuore non esiste quel fuoco del desiderio, Perché il tuo volto si è ricoperto di un velo, o Coppiere! Nessun Rumi è nato dai giardini di Persia, o Coppiere. La stessa terra di Iran, quella stessa di Tabriz, Coppiere! Non si sente senza speranza Iqbal per il suo suolo sterile, Un po’ di pioggia verrà a fecondare la terra, o Coppiere! Il segreti del regno si sveleranno a questo povero fachiro, La mia canzone vale le ricchezze di Parvez, o Coppiere! 10. GHAZAL N.8 Porta una volta ancora quella coppa di vino, Coppiere! Che io possa riavere quel posto che è mio, o Coppiere! Da tre secoli sono sbarrate tutte le taverne dell’India, Ed ora noi soffriamo per la tua generosità, o Coppiere! Nella caraffa del mio ghazal è rimasto un po’ di vino, Ma anche questo è proibito, dice lo sceicco, Coppiere! La foresta della verità è la riva per uomini coraggiosi, Ci sono gli schiavi dei sufi e dei mullah, o Coppiere! Chi ha fatto scomparire la pungente spada dell’amore? Nelle mani del sapere il fodero è vuoto, o Coppiere! Bruciano i petti, l’ardore della lingua della vita sei tu, Senza fuoco la parola è solo morte eterna, o Coppiere! Non privare la mia notte dei raggi argentei della luna, La luna è piena nella tua coppa traboccante, Coppiere! 11. GHAZAL N.9 Ho cancellato il mio coppiere, il tuo mondo ed il mio, Versandomi il vino del “non c’è altro Dio se non Dio”. Né vino, né versi, né coppiere, né suoni di strumenti, Silenzio di monte, riva di fiume, papaveri spontanei! Vedi, di nulla ha bisogno il mendicante della taverna: Giunto alla fonte della vita ha spezzato la sua caraffa. In quest’ora della vita a che può servire la mia caraffa Se nel monastero giacciono vuote le zucche dei sufi? Sono ritornato di nuovo povero, disvelati pure a me! Il mio sguardo irraggiungibile sorpassa il mio cuore. Se la dimora della perla si trova nelle onde del mare, La sua abluzione può compiersi con terra purissima. Dalla grazia del poeta tulipani e rose più splendenti, Un incanto di nuovi fiori e colori c’è nel suo sguardo. 12. GHAZAL N.10 Un tesoro prezioso sono il dolore e il fuoco del desiderio, Il posto dell’adorante non cederei per quello dell’adorato. Per le creature libere non c’è né questo mondo né l’altro, Quaggiù c’è il legame della morte, lassù quello della vita. La modestia è una medicina per i ricercatori dell’Amore, Il tuo ritardo nell’unione rende più forte il mio desiderio. Tra montagne e aridi deserti trascorrono le loro giornate Perché per il falcone è cosa vergognosa costruire il nido. Deriva tutto questo dall’arte o è il risultato della scuola? Chi ha insegnato ad Ismaele il comportamento di figlio? Persone di volontà e di coraggio visitano il mio sepolcro Perché ho rivelato alla polvere della strada i miei segreti. Che necessità ho io di cercare la bellezza del significato, Se la natura medesima colora di rosa le sue stesse rose? 13. GHAZAL N.11 Non ricordi Tu più il primo rapimento del mio cuore, Quelle maniere d’amore, quello sguardo che incita? Questi idoli dell’epoca presente nascono nelle scuole, Non ci sono né stampo pagano, né forma di passione. Nella grazia disvelata non ci sono angoli di libertà, Questo mondo è davvero strano, né gabbia, né nido. La vena del vino aspetta la pioggia della Tua grazia, La taverna di Persia attende il vino del Tuo adorante. I miei compagni non conoscono i segni primaverili, Come potrebbero conoscere questo canto d’Amore? Dalla mia carne e sangue Tu hai fatto questo mondo. Quale è la ricompensa del martire? il dolore eterno. I miei giorni trascorrono via per la Tua benevolenza, Non un lieve rimprovero, non un lamento del tempo. 14. GHAZAL N.12 Il cuore del papavero trabocca di vino di color rubino, Il sufi ha colto quel cenno ed ha lasciato l’ascetismo. In qualunque luogo l’Amore ha disteso il suo tappeto, Ha fatto del povero e del misero un erede di Parvez. Vecchie sono queste stelle, anche il cielo è decrepito, Ho bisogno di un mondo nuovo e di recente nascita. Chi sa che cosa sia il tumulto del giorno del Giudizio, Per me un giro del Tuo sguardo significa Resurrezione. Non privarmi del piacere dei miei sospiri del mattino, Nei Tuoi occhi c’è disattenzione e pretesa d’amicizia. La stagione dei fiori non si addice ad un cuore triste, Il suono dell’uccello della foresta eccita alla passione. Il proverbio degli sciocchi è: “Sottomettiti al destino”. Io rispondo: “Sottomettiti tu al destino oppure lotta!” 15. GHAZAL N.13 Proprio quella mia cattiva sorte, quella tua impassibilità, Di nessuna utilità è stata per me quest’arte di far musica. Dove sono io, dove sei Tu? è il mondo questo o l’altro? Questo è il mio mondo, perché il Tuo è opera di magia. In questo tiremmolla si consumano le notti della mia vita, A volte nell’ardore di Rumi, a volte nei misteri di Razi. Quel falchetto che è stato sedotto da lupi e da avvoltoi Che ne sa delle abitudini e delle maniere del falcone? Non è questo un ghazal, non ne conosco il linguaggio, Sia un suono gradevole al cuore, sia persiano o arabo. Tra sultanato e religione non esiste una grande diversità: Uno si basa sul potere dei soldati, l’altra dello sguardo. Uno ha lasciato la carovana, l’altra la fede nell’haram. Nella carovana dell’emiro non c’è una musica del cuore. 16. GHAZAL N.14 Credevo che il teatro del mio moto fosse sotto il cielo, Credevo che il mio mondo fosse gioco di acqua e terra. Al Tuo svelarti il talismano di sguardi s’infranse tutto, Credevo che il cielo non fosse che un azzurro mantello. La carovana stanca s’era persa nelle pieghe dello spazio, Credevo che Giove, il Sole e la Luna fossero compagni! Con un balzo dell’Amore tutta la vecchia storia terminò. Credevo che quel cielo e quella terra fossero sorpassati. Il mio ardore sotto controllo mi svelò i segreti d’Amore, Credevo che fosse sospiro quello ch’era freno al sospiro. Non era che il grido d’angoscia di un attardato viandante Quello che un tempo pensavo fosse segnale del viaggio. 17. GHAZAL N.15 Una conoscenza di luce, una conoscenza di dimostrazione, La conoscenza acquisita lascia l’uomo tuttora stupefatto! In questa cornice di terra qualunque oggetto Ti appartiene, Per me è molto difficile custodire e conservare un oggetto! Se i miei lamenti giungono alle stelle, la colpa è solo mia? Il desiderio per Te mi ha spinto a comporre questo ghazal! Perché ripetere l’immagine se il risultato si dimostra futile? Ami Tu quell’uomo che si dimostra futile come la polvere? L’Occidente ha instillato in me il dubbio e la miscredenza, Perché i mullah di oggi sono causa di vergogna e di dolore? L’uomo ha ancora il potere di opporsi ai voleri del destino, Sciocchi sono quelli che pensano che l’uomo sia in catene. Tu tieniti pure i Tuoi idoli, io mi tengo pure i miei idoli, Entrambi abbiamo i nostri idoli di terra, inconsistenti, vani! 18. GHAZAL N.16 Oh Dio! bello è senza dubbio questo Tuo mondo mutevole, Ma perché la gente disprezza il vero, l’onestà, la saggezza? Sebbene i ricchi e gli opulenti mettano Dio dalla loro parte, Perché gli uomini considerano l’europeo come un signore? Tu non concedi un filo d’erba agli uomini di talento, ahimé, L’europeo concede a piene mani acri di terra agli sciocchi. Con carne e vino rubino il gregge fedele si nutre in chiesa, Nulla nella moschea, se non sterili sermoni e vani compiti. I Tuoi ordini sono giusti, ma i miei devono essere spiegati, Con le spiegazioni il Corano viene ridotto ad uno Zand! Il paradiso che è Tuo, quale essere mortale l’ha mai visto? In Europa ogni villaggio è molto somigliante al paradiso! A lungo i miei pensieri si sono indirizzati al firmamento, Ora rinchiudili, Ti prego, o Dio, nelle caverne della luna! A me fu concessa la saggezza che Tu desti ad ogni angelo, Di polvere sono, ma non vi sono in me legami con la terra. Il povero è preso da Dio, non dall’oriente o dall’occidente, La mia casa non è a Delhi, o ad Isphahan o a Samarqanda! Dico tutto ciò che ritengo giusto e vero senza alcun timore, Non sono lo sciocco della moschea, né il figlio della civiltà. Considero allo stesso modo sia chi mi ama sia chi mi odia, Ché non posso chiamare miele ciò che è amaro come fiele. È difficile per un uomo di pensiero e amante della verità, Scambiare un cumulo di rifiuti per il monte Demavend. Silente io sono anche nelle fiamme del fuoco di Nimrod, Sono un fedele musulmano, non un seme di mostarda! Pieno di ardore, dallo sguardo amoroso, sono attento a tutti, Disponibile e contento, aperto di cuore e di mente io sono. Anche se in catene, il mio cuore è libero, povero e felice, Nessuno può privarmi, nonostante tutto, del mio sorriso! Di fronte al Signore Iddio Iqbal non può stare in silenzio, Potrebbe qualcuno chiudergli quella bocca poco prudente! PARTE SECONDA 19. GHAZAL N.1 A’la Hazrat Shahid Amir al-Muminin, Nadir Shah Ghazi, diede all’Autore il permesso di compiere un pellegrinaggio al santuario di Hakim Sana’i Ghaznavi. Questi pochi pensieri sparsi furono scritti nel novembre 1933 a ricordo di quell’evento in imitazione di una famosa qasida del poeta (Nota dell’A.) “giungiamo sulle orme di Sana’i e di ‘Attar” La vastità della natura non può contenere il mio dolore, Vano è forse andare vagando per deserti, o mia pazzia! L’Io può distruggere questa magia di colori e di odori, Ma né tu né io possiamo comprendere o capire l’Unità. Guarda, o svanito, la luce di Dio è la fonte della natura, Ché dalle proprie onde il mare non può essere separato. Nella gara tra scienza e conoscenza è l’errore della fede Ché pensa che il cappio di Hallaj possa esserle rivale! Sia al governo che nella schiavitù i puri seguaci di Dio Devono essere soddisfatti, se vogliono esserne salvati! Non invidiare, o Gabriele, la mia condizione di estasi, Ai fedeli van bene preghiere, rosari e pellegrinaggi. Molte taverne ho frequentato in oriente e in occidente, Nessun coppiere ho visto qui, vino senza gusto laggiù! Non c’è vino in Iran, non ne è rimasto per tutta la terra. Quei poveri fedeli che hanno distrutto troni di re e regni, Lo stesso sceicco dell’haram intento a rubare e vendere, Le coperte di Abuzar, gli stracci di Avais, i teli di Zahra. Alla giustizia del Signore Israfil ha porto i miei lamenti, Troppo presto questo servo ha gridato alla resurrezione. Giunse una voce: che cos’è questo grido di resurrezione? Mentre i cinesi sono in adorazione, i meccani dormono. La coppa della civiltà è colma fino all’orlo del vino del no Ma dalle mani del coppiere non si versa il vino della fede. Nascoste nelle corde più recondite del violino, si sentono Le lamentazioni dell’Europa nei toni bassi dello strumento. Da quelle acque si solleva quell’onda che avanza rapida e Che distruggerà il nido in cui sono stati allevati i caimani! Che cos’è la schiavitù? la perdita di amore per la bellezza, La bellezza, tutto ciò che gli uomini liberi chiamano bello! Non riporre fiducia negli occhi ingannevoli degli schiavi, Nel mondo fidati solo degli sguardi di chi è libero e forte! Diventa signore solo colui che oggi con il proprio coraggio Pesca dalla risacca del mare del Tempo la perla del domani. I vetrai europei riescono a fare uscire l’acqua da una pietra, La mia alchimia può rendere il vetro duro come un granito! Il faraone ha complottato fino ad ora contro me e complotta Ma quale nocumento? c’è in me la mano bianca di Mosè! In quale direzione si dirige dall’immondizia quella scintilla Che la Giustizia ha fatto nascere per illuminare le vastità? L’amore, che è consapevolezza di sé e conoscenza di sé, L’amore non teme di stare ai cancelli di Cesare o Cosroe. Non mi meraviglierei se io raggiungessi la luna o le Pleiadi Perché mi sono legato saldo alla sella del mio Signore! Egli, il Primo e Ultimo Inviato, Signore del Tutto, Bellezza, Datore di un grano di polvere sino allo splendore del Sinai. Nell’estasi della vista d’amore, Egli è il Primo e l’Ultimo, Egli Corano, Egli il Libro, Egli il Verbo, Egli il Capitolo. Non andrei lì a pescare perle per rispetto al poeta Sana’i, Ora in questo mare rimangono milioni di perle e tulipani. 20. GHAZAL N.2 Chi canta questo ghazal, colmo di passione e di gioia, Che infonde eccitazione nella voce della saggezza? La povertà ha il potere e la forza di un re onnipotente, Ma un sovrano non ha potere senza un suo territorio. I sufi non hanno più il potere che la povertà dà loro, Quel potere che vince anche i cuori più coraggiosi. Che pensate, o asceti, di quegli uomini che hanno La forza grande e appassionata del Dì del Giudizio? Chi canta il nome di Dio, rapito da forte passione, Preso da pensieri che sono più veloci di un fulmine? Le monarchie ingenerano segnali di grande pazzia, Tamerlano e Gengis Khan sono la spada di Allah! ‘Iraq e Persia prestano omaggio alla mia poesia, L’infedele hindu senza armi va facendo conquiste! 21. GHAZAL N.3 Quel puro mistero che l’estasi divina mi ha insegnato, Possa Iddio rivelarlo se ho con me il respiro di Gabriele! Cosa possono svelarmi le stelle del mio destino finale? Esse stesse vagano disperse in un firmamento sconfinato. Che cos’è la vita? assorbimento totale di pensiero e vista. Il pensiero che va disperso diventa la morte totale dell’Io. Una benedizione di Dio sono i piaceri e le delizie dell’Io, Che mi fanno dimenticare la consapevolezza di me stesso. Con cuore puro, con nobile intento, con grande desiderio, Disprezzo la ricchezza di Qarun o il pensiero di Platone. L’ascensione del Profeta mi ha insegnato proprio questo, Che il cielo sta dentro i confini raggiungibili dall’uomo! Quest’universo è forse ancora a tutt’oggi non completo, Ché sento le parole, sempre ripetute, “si fa, fu fatto”. La tua mente è catturata dagli incantesimi dell’occidente, Nell’ardore della fede di Rumi sono l’antidoto e la cura! È la sua grazia che ha dato ai miei occhi una vista di luce, È la sua grazia che mi ha dato all’anima una vista di luce! 22. GHAZAL N.4 Mondo d’acqua, terra e colori! segreto manifesto, tu o io? Il mondo che è invisibile ad ogni sguardo, qual è, tu o io? Quelle notti di dolore, passione, tormento che dicono vita, Io o tu ne siamo l’aurora, io o tu ne siamo il richiamo? Per l’apparizione di chi si avvicendano le albe e tramonti? Chi di noi, tu o io è un peso greve sulle spalle del Tempo? Tu sei pugno di polvere cieco, io pugno di polvere conscio! Chi di noi due è l’acqua che alimenta i campi della Vita? 23. GHAZAL N.5 (Scritto a Londra) Tu sei ancora legato allo spazio, trascendine le limitazioni! Supera i confini di Egitto e Hijaz, della Persia e della Siria! Le ricompense delle azioni spontanee sono meno mondane, Trascendi le occhiate delle huri, e il vino puro celestiale! Se in occidente la bellezza è ancora molto tenuta in conto, Tu, uccello del paradiso, sfuggi a questa rete ingannevole! Spezza la montagna e fa’ di lei un ponte tra l’est e l’ovest! Supera tutte le difese e fa’ di loro una spada senza fodero! Il tuo sacerdote è incurante, la tua preghiera è frettolosa. Lascia una guida di tal fatta, lascia una simile preghiera! 24. GHAZAL N.6 Il derviscio nella sua libertà custodisce il segreto divino, Quel segreto che egli condivide con lo spirito di Gabriele. Chi sa quanta rovina e danno ha egli causato nel mondo, Con il pensiero miope del poeta e del sufi e del teologo! Abbi un sguardo da tigre che possa trapassare l’anima, Non un sospiro indifferente o uno sguardo da pecora! Quando il medico dell’amore mi vide, così mi parlò: La tua malattia è l’assenza del desiderio che infiamma! Ciò che tu non possiedi è un’anima nobile e illuminata, Ciò che tu invece possiedi è una salute buona e rosea! 25. GHAZAL N.7 La lampada del tulipano ha illuminato valli e colline. L’usignuolo mi ha invitato nuovamente alle melodie. Nel deserto ci sono fiori e bellezze, tutti in lunga fila, Avvolti in mantelli di vari colori, porpora, blu, giallo. Ai petali delle rose la brezza ha dato perle di rugiada E i raggi del sole non fanno che dar luce alle gemme. Se la bellezza senza velo volesse rivelarsi nel deserto Più che nella città, sarebbe più bella che nel deserto? Scava nel tuo cuore per scoprirne i segreti della vita, Se tu non vuoi essere tutto mio, sii almeno te stesso! Il mondo del cuore, ardore e estasi, fuoco e desiderio; Il mondo del corpo, denaro e profitto, frode e inganno. La ricchezza del cuore, una volta trovata, non sparirà: La ricchezza del corpo è solo un’ombra che va e viene. Nel mondo del cuore non ho trovato il raj europeo; Nel mondo del cuore non esiste sceicco o brahmano. Le parole dette dall’asceta mi hanno fatto vergognare: Se ti prostri a un altro, cuore e corpo non sono più tuoi. 26. GHAZAL N.8 (Scritto a Kabul) Nel sangue dei musulmani c’è carattere, buon cuore e brio, Generosità, cortesia verso gli altri, coraggio, modi eleganti. Queste mie lagnanze, o Dio!, alla scuola di Te beneficente Insegnano ai falchetti a strisciare e a giocare nella polvere! Le vittime del passato hanno veduto l’alba della speranza, Quando ho rivelato loro i modi di fare e agire del falcone! L’uomo di religione e fede sa solo le due parole La Allah, Gli studiosi conoscono tomi di sapienza vecchia e nuova! Non ho le coppe e caraffe del vino dei detti del Profeta, Non chiedere al tagliapietre di lavorare a oggetti di vetro! Da dove tu, o Iqbal, hai imparato l’arte dell’elemosinare, Quando tra i re del parlare tu sei libero dalle contingenze! 27. GHAZAL N.9 È l’amore che infonde calore nella musica dell’esistenza, È l’amore che risveglia l’estasi nei senza vita e nei morti. È l’amore che penetra nelle fibre e nelle vene dell’uomo, Nei petali della rosa, simile alla brezza umida dell’alba! Se non conosci il tuo Signore sei schiavo della miseria, E se tu lo conosci, i re e i potenti diventano i tuoi schiavi! La libertà del cuore è sovrana, la sua schiavitù è la morte, La decisione sta nelle tue mani, scegli, o cuore o stomaco. Musulmano! chiedi al tuo cuore, non chiedere al mullah, Ché dai legami di Allah il recinto sacro è stato privato. 28. GHAZAL N.10 Con il cuore senza desiderio, con lo sguardo non puro, Tu non hai l’audacia necessaria ad una visione sublime. In questa terra si nasconde anche una visione di piacere, O tu, negligente! tu non sei un grande signore o altro! Quell’occhio, che è illuminato dal collirio occidentale, È abile ed eloquente, ma non ha l’umore delle lacrime! Ne sanno qualcosa i sufi e i mullah della mia passione? Non hanno ancora imparato nulla dei princìpi d’amore! Fino a quando la mia terra sarà subordinata alle stelle? O non io o non la rivoluzione dei corpi del firmamento! Sono un lampo, mio è l’occhio del monte e del deserto, Non mi si confanno forse le spazzature e le immondizie! Il mondo è patrimonio solo del fedele che ha coraggio! E non è un fedele colui che non ama l’Apostolo di Dio! 29. GHAZAL N.11 In mezzo a mille paure la lingua sia un’alleata del cuore, Questa fu la pratica dei fedeli sin dai tempi dei tempi! Perché la folla si accalca nelle case di mescita del vino? Il punto è uno solo, il taverniere è un uomo disponibile. Non può però dare loro la fiducia di curare la malattia, Anche se Razi si dimostra un filosofo sottile e sagace. Il discepolo sincero si è pentito con grande difficoltà, Possa Iddio dare allo sceicco il desiderio di questa fede! L’uomo è ancora schiavo della magia di tempi antichi, Nelle sue braccia si celano tuttora gli idoli del passato. Per me Tu sei la promessa della fede e mi è sufficiente, Mille grazie al signor mullah che si fa garante per me! Se ha amore per Dio, anche un pagano è un musulmano, Se un musulmano non ne ha, allora è un vero pagano! 30. GHAZAL N.12 DomandaGli sulla testimonianza del mondo fenomenico Per sapere se sei sulla retta strada o sei andato fuorviato! Un musulmano miscredente non può essere faqir o re, Se è un mu‘min, anche se faqir, governa simile a un re. Se è un miscredente, allora deve dipendere dalla spada, Il soldato, se è un mu‘min, combatte senza alcuna spada. Il miscredente musulmano è solo lo schiavo del destino, Se è un mu‘min, diventa egli stesso destino del Signore. Io ho rivelato gli intimi segreti e ne ho squarciato i veli, Ma per la tua cecità e per la tua miopia non c’è rimedio! 31. GHAZAL N.13 (Scritto a Còrdoba) Queste huri europee sono una sfida all’occhio e al cuore, Hanno sguardi splendidi in un paradiso degli occidentali. Si preoccupano di portar via un libro di sguardi e cuore, Queste lune e stelle lucenti sono mulinelli nel tuo mare! Poteri che nel mondo dei suoni non vengono afferrati, Gli accordi dell’arpa e della lira hanno poteri stupendi. Insegnandogli la consuetudine e la via del monachesimo, Il sufi ha fuorviato e traviato il leguleio della sua città. La prostrazione che un dì scosse l’anima della terra, Oggi non lascia alcuna taccia nel minbar e nel mihrab. Quel richiamo non ho udito in Egitto o in Palestina, Quel richiamo che scuoteva di gran terrore le montagne! O Còrdoba! forse questa è tutta una magia della tua aria, L’esuberanza della gioventù ha permeato la mia canzone. 32. GHAZAL N.14 Un cuore vigile come ‘Omar, un cuore vigile come ‘Ali, Nel tocco di un uomo retto l’alchimia è un cuore vigile. Abbi un cuore vigile e forte perché, se è preso dal sonno, Non puoi tu dare un colpo mortale, né io posso osare darlo. Nel deserto uno trova una traccia in base a un odore acuto, Senza questa valutazione non si può prendere un’antilope. Se si è privati del senso dell’olfatto, non si giunge a nulla, Che i tavernieri potrebbero rubarti quel pizzico di fortuna. O Signore! questo tuo cuore sincero sbarrato dove se ne va, Che pure i poveri sono impostori, pure i re sono impostori! La libertà che quest’età mi dà, questa è un dono di libertà, Sebbene la libertà sembri tale, pure è anch’essa prigioniera! Tu solo o Signore, Apostolo di Dio, sei il mio solo aiuto, La mia conoscenza è occidentale e la mia fede è pagana. 33. GHAZAL N.15 Nella civetteria e nella crudeltà del Khudi non c’è orgoglio, Se c’è, è un orgoglio privo del piacere della sottomissione. L’occhio dell’amore va alla ricerca di un cuore che batte, La caccia di una carcassa non è all’altezza del falco regale. Nel mio canto non c’è alcuna grazia attraente e romantica, Perché il suono della tromba di Israfil non piace al cuore. Io non chiederò una coppa di vino al coppiere occidentale, Perché non è questa la maniera dei dissoluti dal cuore puro. Nessuno ha mai diffuso nel mondo le maniere dell’amore e La ragione è che l’amore non è disponibile a tempo o a età. Un’ansietà continua, assente o presente, o Signore Iddio, Se la narro io stesso, la mia storia non diventa molto lunga. Se lo desideri allora leggi i Salmi persiani in solitudine, La lamentazione di mezzanotte non è priva dei suoi segreti. 34. GHAZAL N.16 Il condottiero non all’altezza, i seguaci in rotta disordinata, Ah! marciano senza scopo come una freccia senza bersaglio. Nell’oceano dov’è la conchiglia che ha la perla della vita? Ho guardato tra le onde, ho cercato invano tra le conchiglie! Abbandona la vita mondana, concentrati tutto nel tuo Khudi. Non sprecare il sangue vitale nelle cose futili del mondo! In queste parole si rivelano i segreti della vita e della morte, L’amore è morte onorata, la vita senza amore è solo morte. Rumi ha insegnato il vero della saggezza e della visione: Il saggio brancola nel buio, vince chi si abbandona a Dio. Se un nuovo Mosè guidasse ancora un ulteriore attacco, Dall’albero del Sinai arriverebbe il richiamo: non temere. La saggezza abbagliante dell’occidente non può accecarmi, La polvere della Terra Santa ha reso i miei occhi immuni. 35. GHAZAL N.17 (Scritto in Europa) Il vento invernale trapassava le ossa e sferzava come spada A Londra io non avevo voglia di alzarmi al mattino presto. A volte provavo piacere a prender parte a conversari sociali, A volte mi chiudevo in me lasciando tutti perplessi e strani. Se il mondo è nelle mani dei lavoratori, quale speranza c’è? Gli scavatori dei monti conoscono i trucchi come Parvez. Che sia il potere imperiale, che sia la farsa della democrazia, La tirannia nasce dalla separazione tra lo stato e la religione. Nei dintorni della grande Roma mi viene il ricordo di Delhi, C’è lo stesso esempio, la stessa grandezza, lo stesso fascino! 36. GHAZAL N.18 Che cos’è questo vecchio mondo? mucchi di rovi e ceneri! È difficile attraversarlo con baldanza e senza lamentazioni! Il racconto dei fedeli d’amore non è molto lungo da narrare, La fitta della gioia d’amore, balsamo che lenisce la pena. La vera fede insegnata si è divisa in diverse sette nel mondo, Come puoi ritrovarla se la tua mente è assorta in altre cose? Una cosa è la fede esteriore, un’altra cosa è quella interiore. Chi ne assorbe lo spirito rivela a sé stesso i segreti nascosti. O pellegrino nel mondo, se ti manca la passione per la fede, Oscuro diventerà il sentiero e il ramo della fede si inaridirà. Coraggio e valore sono i segni con cui si manifesta l’amore, Non ogni zelo è arrogante, non ogni coraggio è intemerato. Nel giorno del giudizio la mia frenesia non mi darà requie, O mi straccerò la veste o farò a pezzi l’abito, o mio Signore. 37. GHAZAL N.19 Seguendo la via della rinuncia si ottiene cielo e terra, Con la rinuncia si conquistano il terreno e il celeste! O gente di culto! non mi piace il vostro ascetismo, Il vostro ascetismo è solo penuria, angoscia e dolore. Non è fatta per l’ascetismo, non è fatta per il governo La nazione che ha dimenticato il retaggio di Timur. È bene che il gentile coppiere non senta le mie parole; Se dico: “non più”, il risultato è quello di darmi di più. I sufi ed i seguaci sono immersi in una visione confusa, Non sanno che un segreto è di per sé una rivelazione. La schiavitù è libertà, se i favori discendono dall’alto; Senza quei favori, anche la libertà diventa una schiavitù. L’Europa è una casa preziosa per la ricerca della mente, Ma per la ricerca del cuore è fonte di decadenza e morte. 38. GHAZAL N.20 Sebbene la ragione sia una guida al portale Pure l’ingresso non ci è permesso affatto. Chiedi a Dio di darti un cuore illuminato, Ché la luce e la vista sono cose differenti. Sebbene la conoscenza illumini la mente, Nessuna huri può mostrarti il paradiso. Com’è strano che nei tempi attuali, oggi, Nessuno abbia la gioia di questa visione. Alcune passioni non colpiscono la mente, Altre la rendono cieca ai fatti dell’attualità. Il cuore riceve vita dal tormento inquieto, Che peccato se non conoscesse il tormento! Se si allontana da Dio, per l’uomo è morte, Se si abbandona a Dio, per l’uomo è la vita. Le conchiglie delle perle sono rotte e fesse, Non hanno urgenza alcuna di mostrarsi a te. “ManifestaTi”, biascico spesso con audacia, Questa non è la storia di Mosè sul Monte. 39. GHAZAL N.21 L’Io è un oceano di cui non puoi vedere la riva! Se lo credi un ruscello, allora non c’è cura per te! La magia della cupola celeste non può rompersi, La sua struttura non è fatta di pietra ma di vetro! Nell’Io anneghiamo e poi sorgiamo nuovamente, Ma questo desiderio non è la via di un incapace. La tua vita non è decisa dalle stelle o dalla luna, Se è di polvere, allora tu non dipendi dalle stelle. L’eden è qui, anche le huri e Gabriele sono qui. Nella tua visione non ci sono sguardi di passione. La mia pazzia considera belli i tempi in cui vivo. Ringrazio che la mia veste non sia lisa e in pezzi. Nella sua generosità guarda ai modi della Natura, Ché dona rubini ma nega il calore d’una scintilla! 40. GHAZAL N.22 La brezza mattutina mi ha dato questo messaggio: Quelli che conoscono il proprio Io sono simili a re. Il Khudi è l’essenza della tua vita e del tuo onore, Se possiedi l’Io sei un re, se ne sei privo sei finito. O uomo di saggezza, tu non mi hai indicato la via. Perché ti vai dolendo? tu stesso non conosci la via! I faqir, che conoscono le abitudini e gli usi dei re, Sono tuttora addestrati nel mio circolo letterario. Il culto monastico è un sentiero ristretto e angusto, Che io non amo, ma sono rispettoso della libertà. Il mondo di quaggiù è fatto per affilare gli artigli, Tu sei un falco cacciatore, eppure sei un novizio. Che tu sia in Oriente o in Occidente, la tua fede È priva di significato se il tuo cuore non la segue. 41. GHAZAL N.23 Il tuo sguardo e le tue mani sono legati alla terra, Colpa della tua natura o del pensiero troppo alto? I maestri hanno soffocato la tua anima nascente, E reso fievole in te la voce della tua fede ardente. Immergiti nel tuo Khudi, cerca il sentiero di Dio, È questa per te l’unica strada per trovare la libertà. Chiedi a un nudo derviscio che cosa dice il cuore, Possa Dio mostrarti il tuo posto in questo mondo. Se sei a capo scoperto, abbi una volontà di ferro, La corona non è fatta per te, ma per il falco solo. Quando perdi il tuo Khudi, perdi anche il potere. Non biasimare le stelle e il fato per la tua caduta. Monasteri e scuole mi lasciano triste e depresso, Né vita, né amore, né discernimento, né sapere. 42. GHAZAL N.24 La tua mente non può darti altro che conoscenza, La tua cura resta solo nello sguardo di un devoto. Lo scopo al quale aneli è lontano e non è in vista, Nulla è questa vita se non un viaggio di desiderio. Sebbene il prezzo sia alto, con il ricordo dell’Io, Nella perla non c’è altro che l’acqua della perla! Se nelle vene c’è sangue che scorre, che cosa sei? La vita non è altro che un cuore colmo di ardore. O sposa-tulipano, non è bello celarmi le tue grazie Perché io non sono altro che la brezza del mattino. Ciò che i mercanti dell’ovest considerano inutile e Senza valore sul loro mercato, è da noi apprezzato. Pur povero, Iqbal è una persona generosa di cuore; Che altro può la fiamma dare se non una scintilla? 43. GHAZAL N.25 Agli occhi di un pio la fama di Alessandro è nulla! Che cos’è un trono che si regge sull’oro e i tributi? Tu poni tutte le tue speranze negli idoli, non in Dio; Dimmi, che altro è tutto questo se non miscredenza? Il cielo esalta e favorisce gli sciocchi e gli indegni Che non sanno come essere di aiuto all’umanità. Un solo sguardo può conquistare qualunque cuore, Se lo sguardo non attrae, che cos’altro può attrarre? Per quest’errore il rimprovero dei ricchi è su di me, Perché so che cosa siano le ricchezze di Alessandro. Ognuno tende al raggiungimento dei propri desideri, Ma che gloria è quella che viene dalla morte dell’Io? Il mio modo di vivere ha conquistato tutti i cuori, Anche se i miei versi e la mia poesia non siano tali! 44. GHAZAL N.26 Tu non sei fatto per la terra, né per il cielo, Il mondo è per Te, e non Tu per il mondo. Ragione e cuore sono scintille dell’amore, Una per la stoppia, l’altro per il campo. Questo mondo è un luogo di lamentazioni, Non è per cogliervi rose o crearvi un nido. Per quanto tempo galleggerà nei fiumi La tua barca che è fatta per i grandi mari? Chi un tempo faceva da guida alle stelle, Ora attende chi possa fare loro da guida. Ambizione, parole dolci, anima ardente, Sono il bagaglio del capo della carovana. Parole semplici, ma la mente forestiera Le ha scambiate per una licenza poetica. Per Gabriele ho in gola un canto di sfida, Un canto per il regno del senza spazio. 45. GHAZAL N.27 O prigione dello spazio, non è lungi il cielo, Quel fulgore non è lontano dal tuo mondo. Quel giardino, che non ha paura dell’autunno, Non temere, non si trova lontano dal tuo nido. È questo il segreto della conoscenza mistica: La vita, freccia scoccata, non lungi dall’arco. Il tuo spazio giace oltre le stelle e le Pleiadi, Muoviti, la tua sosta non è lontana dal cielo. Non dire alla tua guida: “Lasciami stare ora”, Ché questo non è di un saggio viaggiatore. 46. GHAZAL N.28 (Scritto in Europa) La ragione mi ha dato lo sguardo del saggio, L’amore mi ha insegnato i moti dell’animo. Non circolano né vino, né coppa, né caraffa, Dallo sguardo solo vengono colore e suono. Non scambiare i miei versi per arte poetica, Ché conosco i segreti del venditore di vino. Guarda il fiore che brama un soffio di zefiro, Narra la storia del mio cuore abbandonato! Qualcuno può dirmi se è assenza o presenza, Tutti sono liberi qui, io solo sono straniero! In Europa potrei stare qualche giorno in più, Una mia pazzia se questo deserto lo ammette. Questo pensiero attraversò la mente di Iqbal, Ma il saggio si perse nella valle dell’amore. 47. GHAZAL N.29 Giunge infine dal cielo la risposta ai lamenti. Il messaggio dice: si alzano finalmente i veli. Non così si verifica nelle fortune dell’amore, Prima fuoco in fuoco, infine fuoco in fuoco! Io ti chiedo: Qual è il destino delle nazioni? Prima spada e lancia, infine violino e ribeca. Strani sono i costumi delle taverne in Europa. Prima portano il piacere, poi servono il vino. Sia la gloria di Nadir sia il terrore di Timur Tutto alla fine annega in una caraffa di vino. Finisce l’ora romita, inizia l’ora congregativa, Il fulmine separa alla fine quei cieli di nuvole. Era difficile frenare il flusso di queste verità, Alla fine l’asceta rivelò i segreti del Libro. 48. GHAZAL N.30 Ogni cosa è viandante, ogni essere è in viaggio! La luna e le stelle, le creature marine e dell’aria! A te uomo di battaglia, a te signore della guerra, Gli angeli luminosi ti presentano i tuoi eserciti! Tu non hai nozione della tua propria grandezza, Questa mancanza di gusto, mancanza di spirito! Fino a quando sarai schiavo del mondo terreno? Scegli, la vita dell’eremita o la vita del principe! Guardo la vita e le azioni degli uomini di chiesa, Scialbe sono le loro azioni, deboli le loro parole! 49. GHAZAL N.31 Ogni atomo desidera manifestare sé stesso, Ogni atomo aspira a mostrare la grandezza! La vita che non ha sete di desiderio è morte, Nella costruzione dell’Io è l’essenza divina! Attraverso l’Io un seme diventa un monte, Con un Io debole il monte diventa un seme! Le stelle vanno vagando e non si incontrano, Il destino stesso d’ogni cosa è la separazione! Pallida va la luna dell’ultima ora della notte, Senza il mistero e la richiesta di un’amicizia! Il tuo proprio cuore è divenuto la tua candela, Il tuo proprio Io è tutta la luce che ti occorre! Tu sei l’unica e sola verità di questo mondo! Tutto il resto è illusione nata da incantesimi! Le spine di questi deserti ci pongono dubbi: Non lamentarti se i piedi nudi ti sanguinano! 50. GHAZAL N.32 È questo mondo la magia di qualcuno o del caso? In oriente si sono perdute le magie dell’occidente! Costruendo il nido mi si manifestò questo segreto: Per gli uccelli canori il fulmine di per sé è il nido. Questa schiavitù è divina, quella schiavitù terrena. O la schiavitù riguarda Iddio o riguarda il mondo. Non trascurare il tuo Io, custodiscilo attentamente. Diventa l’ingresso del luogo sacro di un martire! O erede del solo Dio, in te non si trova traccia: Parole prive di mordente, azioni senza grandezza! Con il tuo sguardo infondi paura nei tuoi precordi! Lo zelo ardente del devoto è in te morto e sepolto! Del segreto del santuario forse Iqbal è consapevole, Le sue parole e canzoni mostrano un tono di fiducia. 51. GHAZAL N.33 Perché dovrei chiedere ai saggi della mia origine? Ho sempre desiderato di conoscere il mio scopo! Esalta il tuo Khudi così che prima di ogni decreto Dio possa chiedere al suo servo che cosa desideri! Non c’è nulla da dire se io divento un alchimista, La mia unica alchimia è questa passione che arde. In quegli sguardi cupi ho visto il destino segreto, Non chiedere il significato di quegli occhi lucidi! Se fosse ancora in vita il pensatore occidentale, Iqbal potrebbe fargli capire la grandezza di Dio. Il mio cuore sanguina al canto del primo mattino, O Signore, qual è il peccato per questa punizione? 52. GHAZAL N.34 Quando l’amore insegna i modi del proprio Io, I segreti dei re e cesari si svelano agli schiavi! Si tratti di ‘Attar, o Rumi, o Razi o Ghazzali, Non si otterrà nulla senza notti in meditazione! O Guida, non perdere la speranza negli uomini, Anche se pigri, pure non sono privi di desideri. O uccello, la morte è meglio di quel nutrimento Che appesantisce il tuo volo verso le alte sfere. Più grande di Dario e Alessandro è quel fachiro Nella cui povertà vedi le orme del leone di Dio. Coraggio e verità sono il credo dei giovani forti, Le tigri di Allah non conoscono alcun inganno. 53. GHAZAL N.35 Le lacrime mi assalgono di nuovo durante la notte, O viandante, sosta un po’, forse è un brutto sogno! Immergiti anche tu un attimo negli abissi del Fato, Come spada dal fodero esco dal campo di battaglia! Nella nicchia uno zelante ha scritto questo verso: Gli stolti si chinano, quando è tempo di combattere. Va’ per la tua strada, o tu che deridi la mia povertà! Quando ricevetti la coppa, la riunione s’era sciolta! Iqbal ha dato lustro ai musulmani abitanti in India, Era un uomo accomodante ed ha ben servito i pigri! Per trovare Iqbal, per anni mi sono afflitto e adirato, Con grande fatica la mia rete ha preso quel falcone! 54. GHAZAL N.36 Senza l’impeto della passione non posso più vivere. Che altro è questa vita se non forte passione e lotta? La mia vera natura mi spinge ad un canto senza fine. Tra la folla qualcuno preferisce forse vivere da solo. La fiamma d’amore può oggi incendiare il tuo nido. Se tu non hai questa sete, perché biasimi il coppiere? Non farti irretire dalle seduzioni fatue dell’occidente, Quei lampi sono in realtà prodotti dalla luce elettrica. Nei cuori non può albergare la conquista del mondo, Se negli sguardi non nascono le abitudini del mondo. Nel gelo non son caduto nella trappola del cacciatore, I rami spogli del nido ne hanno ricoperto la trappola. Il piano sarà frustrato, i colpi falliranno il bersaglio, La verità è: non si tratta di un romanzo della mente! 55. GHAZAL N.37 La natura è presente avanti alla tua mente, Sottometti questo mondo di colori e odori. Sembra che tu non abbia il tuo proprio Io, Va’ alla ricerca di quanto è andato perso. Le stelle brillano nello spazio senza fine. Desiderio di arrivare a questo alto luogo. Nude e private di veli sono le tue huri, Un rammendo per la rosa e il tulipano. Sebbene la natura abbia i suoi desideri, Completala tu in quello che le manchi! 56. GHAZAL N.38 Uomini di chiesa e moschea non hanno capacità! Malgrado gli sforzi, il cuore del fedele è chiuso. La fede, non il cuore, dà la forza della conquista, Quella del povero davanti al quale si chinano i re! A volte stupore, o rapimento, o sospiri al mattino, Il dolore della separazione che provo mille volte! Le parole di amore oltrepassano il limite terreno, Ho compreso che la morte del cuore è separazione. La Bellezza di per sé stessa lo costringe a svelarsi, I motivi del suo celarsi sono nella mia vista corta! La logica del destino è al di là della nostra portata, Non erano forse Timuridi e Ottomani coraggiosi? Come hanno fatto i fachiri a conquistarsi Iqbal, se Re e principi non sanno catturare un falco bianco? 57. GHAZAL N.39 La scienza presente ha riscoperto la vecchia magia, Con l’aiuto di Mosè si passa il sentiero della vita! La mente è abile ad assumersi centinaia di compiti, L’amore sfortunato non è del prete o del saggio! Vietata è la sosta a chi segue il sentiero dell’amore, Come un viandante, egli vaga ma è invece fermo! L’assillo del pesante fardello ritarda il tuo viaggio, Libero dal peso, tu puoi attraversare monti e mari. La ricchezza del derviscio è la libertà e la morte! Non ha ori e terre che qualcuno possa reclamare. 58. GHAZAL N.40 Al di là delle stelle ci sono altri mondi, E ancora altre prove d’amore a venire. Non è privo di vita quello spazio vasto, Viaggiano lì migliaia di altre carovane. Non accontentarti del mondo terreno, Altri giardini ci sono, altri nidi ci sono! Perché preoccuparti se un nido è perso? Ci sono altri posti per lamenti e sospiri! Tu sei un falco, volare è il tuo compito, Altri cieli e spazi si aprono dinanzi a te. Non essere preda dei giorni e delle notti, Tuoi sono ancora il tempo e lo spazio. Passati sono i giorni in cui vivevo solo, Ora ci sono i confidenti dei miei segreti! 59. GHAZAL N.41 (Scritto in Francia) L’occidente cerca il perpetuo piacere mondano, Desiderio vano, ahimé! desiderio vano, ahimé! Udendo la mia condizione, la mia guida disse: Conosco il tuo lamento, non tenerlo nel cuore. Mosè chiese di vedere Dio, io non lo chiedo. La richiesta fu legittima per lui, vietata per me. I lai dei religiosi tradiscono un segreto celato, Ma le vie dell’uomo di Dio non sono per tutti. Nel cerchio dei sufi la lode a Dio è tiepida, Io rimasi insoddisfatto, tu pure insoddisfatto. Il tuo scopo è l’amore, anche il mio è l’amore, Incompleto è per te, lo stesso ancora per me. Ahimé, tu hai tradito il segreto di un fachiro, Sebbene questi sia più ricco di un re della terra. 60. GHAZAL N.42 L’Io fortificato dalla scienza è l’invidia di Gabriele, Se rafforzato dalla passione è la tromba di Israfil. Conosco il tormento della scienza e sapere moderni, Io che vi fui gettato come Abramo lo fu nel fuoco. La carovana è ingannata dall’amore della dolce casa, Ma ben più grande che stare è la gioia di procedere. Se non hai occhio, non fermarti tra i miei ascoltatori, Perché i segreti dell’Io sono come una spada affilata. Mi torna ora alla mente ciò che ho appreso in Europa, Ora godimento della Presenza, ora velo della ragione. È notte scura e tu sei lontano sperduto dalla carovana, Per te il mio canto sia la luce che illumina il cammino. Semplice, strano e colorato è il racconto del Santuario: Inizia con Ismaele e termina con Husain, il martire. 61. GHAZAL N.43 Esiste forse nelle scuole una freschezza di pensiero? Esiste forse nei monasteri il piacere dell’esoterismo? Lontana è la mèta e il viaggio è un compito erculeo, Dov’è un capo che possa guidare questa carovana? Non meno grande di Khaibar è la guerra per la fede, Ma esiste nella nostra epoca un coraggioso come ‘Ali? Oltre i confini della conoscenza esistono per il fedele I piaceri dell’estasi e anche quelli della visione di Dio. Il taverniere pensa a quello che l’occidente ha creato, Una casa dalle fondamenta vacillanti e mura di vetro. 62. GHAZAL N.44 Gli eventi ancora avvolti nella pergamena del tempo Si riflettono nello specchio della mia percezione. Né esistono nei pianeti, né nelle rotazioni dei cieli, Solo il mio canto coraggioso può dirti il tuo destino. O nel mio sospiro non alberga il fuoco della vita, O nel tuo piccolo è ancora avvolto nella cenere. Che strano! forse il mio canto funebre può ancora Risvegliare quel fuoco che cova sotto la tua cenere! Questa cenere romperà un giorno l’incanto del tempo Anche se è tuttora avvolta nella matassa del destino. 63. GHAZAL N.45 Nei sufi non c’è il fuoco della passione che consuma, Non parlano di altro se non di miracoli e meraviglie. Sia il palazzo del sultano che il monastero del fachiro, La reggia e il santuario hanno perso di vista il loro fine. Il dì del giudizio Iddio si troverà in grande imbarazzo Vedendo le pagine bianche nel libro di sufi e mullah. Né Cina e Arabia, né Roma e Siria sono la sua dimora, Né in questo mondo o nell’altro l’uomo può collocarsi. L’intossicazione del vino notturno è ora scomparsa, ma Gli sguardi del coppiere pungono il cuore come freccia. Le mie parole amare in questo giardino vanno dicendo Che la passione agisce spesso come un vero toccasana! Un canto che ha la potenza dei tuoni e lampi del cielo Vale molto più di tutte le ricchezze dei re e dei potenti. 64. GHAZAL N.46 Nella sua forza l’intuizione si è affermata in Occidente, Ma non ha avuto la pienezza di un completo abbandono. La quintessenza della vita è la forza della fede suprema, È una forza che è negata a tutte le nostre sedi del sapere. Le galassie, i pianeti, il firmamento, tutti sono in attesa, In attesa che l’uomo si ribelli come una stella nel cielo. Questi cervelli vivaci, cuori misteriosi, occhi coraggiosi È questo il risultato di ciò che la nostra epoca ha avuto? Il mondo è paglia per l’anima ardente di un musulmano, Ma se non hai la vista, non potrai trovare la tua strada. Per una gran parte degli uomini la ragione è una guida; Non sanno che la pazzia ha in sé una propria saggezza. Tutto il mondo è un’eredità dell’uomo che ha una fede, Lo dico sulla base del “Noi non lo avremmo creato”. 65. GHAZAL N.47 O uomo, lo scopo che tu cerchi è simile a perla preziosa, Se desideri ottenerlo, abbi coraggio e risoluzione e fede. Devi imparare a conquistartelo come Sanjar e Tughril, O come un vero qalandar più potente dei re della terra. O come il pensiero di Farabi o come la febbre di Rumi. O hai bisogno della vista del pensiero o della passione. Scegli, o le astuzie della ragione o l’amore e la sincerità, O la scaltrezza dell’Occidente o il coraggio dei Turchi. Scegli, o la strada dei musulmani o gli idoli dei pagani, Scegli, la fede pura sia si tratti della Ka’ba o del tempio. Qualunque sia il tuo stato, di uomo schiavo o re libero, Ciò di cui hai bisogno è il coraggio senza mezzi termini. 66. GHAZAL N.48 Né nel trono e nella corona, né nell’esercito e nei soldati C’è la forza del qalandar che disprezza i due mondi. Il mondo è la casa di un idolo e l’uomo di Dio è Khalil, L’essenza del segreto sta nel “non c’è Dio se non Dio”. Il mondo che tu hai creato appartiene solo e soltanto a te, Il mondo di mattoni che tu vedi non puoi chiamarlo tuo. L’uomo di fango, che vaga per la strada di là dei pianeti, Può ancora trovare lungo la strada la sua propria dimora. Da quelli che governano mare e terra mi è giunta notizia Che l’Occidente è spazzato da una corrente inarrestabile. Un nuovo mondo mi si apre nei lamenti giorno e notte! Ricercalo e raggiungerai così il tuo scopo e il tuo intento. Sebbene mi siano rimaste poche gocce di un forte vino, Pure sono meglio del vuoto dei monasteri e delle scuole! 67. GHAZAL N.49 Non mi ha donato la Natura un cervello sottile, Ma la mia polvere possiede la potenza del volo! Quella polvere la cui frenesia supera la ragione, Quella polvere che ha lacerato la veste di Gabriele, Quella polvere che non si cura di stare immobile, E non trasceglie dal giardino gli sterpi per il nido. A questa polvere Allah ha fatto dono delle lacrime, Quelle lacrime il cui scintillio sconvolge le stelle! 68. GHAZAL N.50 Uomini dalla vista acuta costruiranno nuove città: Nei miei occhi non ci sono più Kufah o Baghdad. Questa gioventù, questo sapere, questo desiderio, Di questi si è riempita la bottega europea del vino. Non di filosofi o mullah è lo scopo che io perseguo, Questa, la morte del cuore; quelli la vita della vista. Riguardo al teologo, lontano da me la derisione, Ma come affrancare l’uomo, questo è il mio scopo. Le marmitte dei ricchi sono in vendita dappertutto, Chi si affatica, guadagna la ricchezza creata da Dio. Ho svelato misteri e pensieri che l’eremita ha appreso Nel monastero o nel chiostro, basati sulla vera libertà. I modi dei rishi non possono mutare per i digiuni, Se Mosè non avesse la verga, vano sarebbe il suo dire. 69. GHAZAL N.51 Con Dio gli angeli si lamentarono di Iqbal dicendo: È un uomo rude e insolente, ed è per natura gioviale. Sebbene sia fatto di fango e acqua, si atteggia a un dio. Non è legato ad una patria, è libero da legami terreni. Agli angeli ha insegnato la frenesia tipica degli uomini, All’uomo fatto di fango insegna il modo tipico di Dio. 70. GHAZAL N.52 Nella lotta del cuore e della ragione, Rumi ha vinto e Razi è fuggito! La coppa di Jamshid è ancora viva. Non c’è regalità senza uno specchio! Né tu né io siamo musulmani sinceri, Anche se diciamo le nostre preghiere! Ne conosco la conclusione di ognuna, Laddove i mullah litigano fra di loro! Il turco e l’arabo parlano soavemente, In amore tutte le lingue sono uguali! La progenie di Azar fabbrica idoli, Ma gli amici di Dio li distruggono! Tu sei la vita e tu vivrai eternamente, Il resto è solo tutto un gioco di creta! 71. GHAZAL N.53 È tempo di partire, destati, la tromba dà il suono! Guai al viaggiatore che se ne sta ancora in attesa! I tuoi tempi sono cambiati, tu ora vedi e hai visto, I recinti di un monastero non sono stati fatti per te! Faticoso è il sentiero, per te che cerchi la salvezza, Sia che il tuo cuore sia schiavo o abbia la ragione! L’io di colui che si lamenta di ogni cambiamento È ancora prigioniero del tempo, di giorno e di notte. O uccello, il tuo canto è ben ricompensato quando Infonde il fuoco dell’ardore nel bocciolo della rosa. 72. GHAZAL N.54 Il mio canto ha dato nuova vita all’ignorante e al pio! Il mio forte amore ha dato loro il fuoco e il desiderio! Un estraneo vicino al santuario intonò questo canto: Ahimè, le vesti dei pellegrini sono lacerate, in pezzi! In verità il luogo di Husain è senza tempo e spazio, Anche se Siriani e Kufi spesso cambiano modi e usi! I giocatori che si cimentano con te sono abili e astuti, Temo che le tue mani ignare ti portino rovina grande! È forse strano se i musulmani tornano all’antica gloria, La protesta di Sanjar, la pietà di Janid e Bustami! La veste che indosso la devo alla Tua speciale grazia, Al Tuo occhio è nota la mia statura, semplice e piana! 73. GHAZAL N.55 Traverso molte soste procede il viaggio della luna nuova, Non si raggiunge la perfezione se non lottando con fatica. Il bocciolo, che non riceve luce dal sole così splendente, E si apre nel suo interno è privo della piena spinta vitale. Se il tuo sguardo è puro, anche il tuo cuore risulterà puro Ché Dio ha stabilito che il cuore segua e guidi lo sguardo. Nel giardino il tulipano dal cuore in pena non può fiorire Ché questo mondo della materia non si addice al tulipano. Il mondo ha dimenticato le battaglie di Aibak e Ghori, Ma i canti di Khusrav riempiono ancora di gioia i cuori. 74. GHAZAL N.56 Non perderti, o uomo, nella rete di mattino e sera, destati, Esiste pure un altro mondo che non ha futuro del passato! Nessuno sa il tumulto che si nasconde nel seno del futuro, Moschea, scuola e taverna sono ormai silenti come tomba! In lacrime si trova al mattino quella gemma unica e bella, La gemma che mai una conchiglia ha nutrito nel suo seno. La nuova cultura non è altro che falsa attrazione e pompa, Se il volto è bello e attraente, non ha bisogno di venditori. Molta cura deve avere chi crea la musica di una canzone, Ché spesso la voce non vista ispira arie stonate e stridule. 75. GHAZAL N.57 Le scuole, un tempo sede di uomini forti e di regali natali, Oggigiorno non insegnano altro che usanze e modi scaltri. Le guide della carovana non possiedono più quella virtù Che fa parte del compito del pastore e del rango di Mosè. Come può l’uccello canoro raggiungere la gioia del canto? Ahimè, nel giardino ostile non può più sostenere lo sforzo. Un tipo di estasi e sorpresa è oscurità fonda e completa, Estasi e sorpresa sono sostituite da amore e conoscenza. Il mio pensiero che vola alto come il lampo indica la via, Per tema che il viandante nella notte smarrisca la strada. 76. GHAZAL N.58 Il felice cantore Salman mi disse questa sottigliezza: Il mondo non è ristretto per quelli che hanno coraggio. Un uomo può vivere senza la luce della scienza e arte, Ma deve avere la vista di un falco e il cuore di un leone. Non imitare i comportamenti del pavone e del bulbul. Il primo è solo colore, il secondo solo canto e lamento. 77. GHAZAL N.59 Nella povertà ci sono miracoli, corone, troni, eserciti. La povertà è principe dei principi, sovrano dei sovrani. Lo scopo del sapere è render chiari il cervello e il cuore. Lo scopo della povertà è rendere puri la vista e il cuore. La conoscenza è lo studioso, la povertà Cristo e Mosè. Il sapere cerca la via, la povertà conosce già quella via. La povertà la sa per intuizione, il sapere per esperienza. Nella povertà l’estasi è ammessa, nella scienza è peccato. La presenza del sapere è una cosa, un’altra è la povertà. Non esiste che un solo Dio, non esiste che un solo Dio Quando batte sulla pietra della povertà la spada dell’Io Il colpo di un soldato coraggioso è simile ad un esercito. Se, su questa terra, esiste un cuore sveglio e vivo e desto Un solo sguardo saprà rompere specchi di sole e di luna. 78. GHAZAL N.60 Nella mia pazzia senza fine feci il giro della moschea, Sia lodato Dio, la veste esterna del santuario era intatta. Ai fedeli sia considerato di buon auspicio questo digiuno Che all’unanimità i giuristi della città ritengono contrario! Uomini, come Platone, vagolano tra la fede e il dubbio; Sostano solo se un verso del Libro si riveli al loro cuore. Pur profondi, gli interpreti non sanno dire le sottigliezze O le intricatezze difficili, siano Razi o il Kashshaf. Nel mezzo del piacere e dell’ardore non dura o persiste La gioia del vino straniero anche se limpido nella coppa. 79. GHAZAL N.61 Sapere e ragione si comportano in maniera molto strana, Nel caso dell’amore sono rivali del cuore e della vista! Conosco bene quale sarà il destino della nostra comunità Con predicatori che si preoccupano di finezze teoretiche! Anche se un uccello campestre svolazza sulla mia casa, Non ha parte alcuna o condivide il mio canto melodioso! I Turchi – così mi dicono – possono leggere tra le righe, Chi può far sapere loro questo verso nel più breve tempo! Voi considerate l’Europa come una terra vicina e dolce, Sebbene le stelle siano più prossime alla vostra dimora. 80. FRAMMENTO Anche se lo stile non è vivace e brioso, Possano le mie parole entrare nel cuore. Nello spazio dei cieli risuona il takbir, Nel seno della terra rosario e preghiera. Quella la fede del forte, conscio di Dio, Questa la fede vegetale del mullah. 81. QUARTINA N.3 Stranieri sono i costumi nel santuario, Mercantili sono i costumi nella chiesa. Il mio abito consunto è una reliquia, Non è più questo il tempo dei mistici. 82. QUARTINA N.4 Sprofonda nel mare oscuro, o onda; Rotolati, avvolgiti, cambia te stessa. Nel tuo destino non c’è riva, o onda! Risorgi, ovunque ti piaccia e fuggi! 83. QUARTINA N.5 Sono nello spazio o fuori dello spazio? Spettatore del mondo o io stesso mondo? Gli abitanti del non-spazio sono ebbri. Abbiano la bontà di spiegarmi dove io sia! 84. QUARTINA N.6 Perso com’ero nella privatezza del mio Io Non ero consapevole della presenza di Dio! Non alzai gli occhi verso la luce dell’Amico E nel Dì del Giudizio non preparai la scena. 85 . QUARTINA N.7 Ero tutto perso nella mia devozione per Te e Più confuso era diventato il mio canto per Te. A volte sono alla ricerca della realizzazione, A volte sento il desiderio bruciante di Te. 86. QUARTINA N.8 La fede come Abramo si nasconde nel fuoco, La fede preferisce l’estasi che è propria di Dio. Ascolta! tu, o prigioniero della civiltà presente, L’apostasia è una cosa peggiore della schiavitù. 87. QUARTINA N.9 Nella passione araba siede l’armonia persiana, Il segreto del santuario è l’unità delle nazioni. Il pensiero dell’Europa non conosce l’Unicità, La civiltà dell’Occidente non ha un santuario. 88. QUARTINA N.10 Presta ascolto alle note del mio nuovo canto, Un’anima indiana e un tono melodico arabo! Uno sguardo impuro e un tono dell’Europa, Una natura regale e un destino da schiavo. 89. QUARTINA N.11 Forse in ogni atomo risiede un cuore inquieto, Nel visibile c’è l’intimo di un cuore romito. Tenuto nella prigione dell’ieri e del domani, Il cuore non è schiavo del passare del tempo. 90. QUARTINA N.12 Il tuo pensiero non è né eccelso, né etereo, Né il tuo volo è ispirato da una fede salda. La tua origine è quella propria del falcone, Ma nei tuoi occhi non c’è più quell’ardire. 91. QUARTINA N.13 Non c’è né credente né la forza del credente, Il cuore risplendente del sufi è scomparso. Chiedi a Dio sia quel cuore che quella vista, La forza senza la devozione non esiste più. 92. QUARTINA N.14 L’io tra gli uomini è profezia, L’io tra gli uomini è splendore. La terra, il cielo, il firmamento, Nell’ambito dell’io è la divinità. 93. QUARTINA N.15 La vista s’è impigliata in colori e in odori! La ragione si è persa in quattro direzioni! Non rinunciare, o cuore, ai sospiri mattutini! Forse troverai la salvezza nella lode di Allah. 94. QUARTINA N.16 La bellezza dell’amore mistico è un’armonia, La maestà dell’amore mistico è l’abbandono. L’apice dell’amore mistico è la forza di Haidar, Il declino dell’amore mistico è la parola di Razi. 95. QUARTINA N.17 Dov’è la bellezza della mia riunione? Dov’è il mio lampo, il mio raccolto? Il luogo risiede nell’intimità del cuore. Dov’è il luogo del cuore del Signore? 96. QUARTINA N.18 Non sono né cammelliere né sella, Sono un segnavìa io, non una mèta. Il mio destino è bruciare gli sterpi, Sono solo un lampo, non un raccolto. 97. QUARTINA N.19 Nel tuo petto c’è il respiro, non c’è un cuore, Il tuo respiro non ha il calore della danza, Rinuncia alla ragione perché questa luce È la lampada della strada, non è la tua mèta! 98. QUARTINA N.20 Tu sei puro e chiaro, la tua natura è la luce, Tu sei l’occhio dello splendore dell’empireo. Le tue inermi prede sono gli angeli e le huri. Tu sei il falcone del Sovrano degli Uomini. 99. QUARTINA N.21 I fedeli non nutrono più la passione dell’amore, Nei musulmani non c’è più il sangue di un tempo. File diseguali, cuori confusi, preghiere inutili, Questo perché i sentimenti profondi non durano. 100. QUARTINA N.22 Con la forza dell’Io distendi un’ombra sul mondo. Scopri i misteri del mondo dei colori e degli odori. Assunto il colore del mare, sii familiare alla riva, Dallo spumeggiare della riva ritrai poi il tuo manto. 101. QUARTINA N.23 La rugiada brilla sui fiori nell’aiuola del giardino, Il gelsomino, il prato, la leggera brezza dell’alba. Ma il tumulto e la passione non possono scaldare, Qui il tulipano è privo della fiamma della vita. 102. QUARTINA N.24 La ragione non è che un lampione per il viandante. Ma che cos’è la ragione? Un lampione lungo la via. Del tumulto e passione che si agitano dentro la casa, Ne può forse sapere qualcosa il lampione della via? 103. QUARTINA N.25 Da’ ai giovani il sospiro della passione per Te, Da’ ai ragazzi le ali, la forza e la vista del falco. O Signore Iddio, io Ti prego di conceder loro: Da’ loro la forza della vista che Tu mi hai dato. 104. QUARTINA N.26 Il tuo mondo è quello dei volatili e dei pesci, Il mio è quello del lamento dell’ora dell’alba. Nel tuo mondo sono uno schiavo e senz’aiuto, Nel mio mondo si dispiega tutta la tua potenza. 105. QUARTINA N.27 Non son privo di talento, grazie alla Tua opera, Non sono schiavo di sovrani e di imperatori. Nato con una disposizione di vedere il mondo, Di nessuno sono, come la coppa di Jamshid. 106. QUARTINA N.28 Tu sei l’essenza dello spazio e del non-spazio. Che cos’è lo spazio del mondo? Un modo di dire. O Khizar, che cosa indichi e perché lo indichi? Si va forse chiedendo il pesce dove sia l’oceano? 107. QUARTINA N.29 Talvolta l’amore è vagabondo e privo di casa, Talvolta l’amore è la giustizia del re dei re. Talvolta l’amore è un guerriero sul campo, Talvolta l’amore è senz’armi e senza difesa. 108. QUARTINA N.30 Talvolta l’amore va in cerca della solitudine, Talvolta l’amore ricerca il piacere che brucia, Talvolta l’amore cerca i recessi della moschea, Talvolta l’amore ricerca la lotta di Khaibar. 109. QUARTINA N.31 Concedimi l’assorbimento intimo degli antenati, Fammi compagno di quelli che non si lamentano. Ho risolto tutti i quesiti della ragione, ma adesso, O mio Signore, dammi l’estasi, ora, o mio Dio! 110. QUARTINA N.32 Da Abu al-Hasan ho appreso questa verità, “L’anima non muore con la morte del corpo”. Come potrebbe mai restare nel sole il calore, Se egli fosse stanco e sprezzante dei raggi? 111. QUARTINA N.33 La mia ragione non distingue il bene dal male, E cerca di superare i confini posti dalla natura. Non so che cosa mi sia capitato ora, o mio Dio, Ragione e cuore, cuore e ragione in eterna lotta. 112. QUARTINA N.34 L’essere Dio è davvero un compito pesante, L’essere Dio, o mio Signore, è un’emicrania. Ma, Iddio me lo perdoni, l’essere un uomo Non è solo un mal di capo, è un mal di cuore. 113. QUARTINA N.35 Così, l’uomo è il signore della terra e dei mari! Che condizione è la sua, lui senza perspicacia! Non conosce né se stesso, né Dio, né il mondo! È questo dunque, o Signore, il tuo capolavoro? 114. QUARTINA N.36 Il respiro del mistico è la brezza del mattino, Il suo respiro tramuta l’umidore in vera linfa. Se uno raggiunge la condizione di Shu’aib, La distanza dal pastore al mistico è due passi! 115. QUARTINA N.37 Nelle vene non scorre più quel sangue! Quel cuore, quel desiderio non c’è più! Preghiera, digiuno, sacrificio, haj. Tutto questo c’è, sei tu che non ci sei! 116. QUARTINA N.38 Si sono disvelati tutti i misteri dei recessi. Passato è il tempo del:“Mai mi vedrai!” Chi per primo renderà visibile il proprio io, Quello sarà il Mahdi e la fine del tempo. 117. QUARTINA N.39 Eterna è questa rivoluzione del tempo, Tu sei una realtà, il resto è leggenda! Nessuno ha veduto l’ieri o il domani, Il tempo di cui disponi è solo l’oggi! 118. QUARTINA N.40 L’io dei non-musulmani è la pratica medica. L’io dei segreti nascosti è la pratica religiosa. Se tu osservassi la pratica del povero e del re, Troveresti nella povertà la grandezza dell’io. 119. QUARTINA N.41 Il tuo corpo non conosce i recessi dell’anima, È una cosa strana ? il tuo sospiro non si eleva, Iddio vede con disgusto un corpo senz’anima, Il Dio vivente è il Dio delle anime che vivono! 120. FRAMMENTO Iqbal recitò un giorno in un giardino primaverile Questo distico allegro e vivace in tono e spirito: “Diverso dalla rosa, non ho bisogno della brezza, La mia anima rifiorisce proprio con la mia estasi”. 121. PREGHIERA (Scritta nella moschea di Còrdoba) Questa la mia preghiera, questa la mia abluzione, Nel mio cuore c’è la lamentazione dell’anima mia. Luce, splendore, estasi fanno compagnia al cuore. Appassionato e ardente è il tulipano lungo il fiume. Nel viaggio dell’amore si è soli, senza compagnia. Con me per la strada non c’è che il mio desiderio! La mia casa non è la casa dei ricchi e dei potenti, La mia casa sei Tu, il ramo del mio nido sei Tu! Tu hai messo nel mio petto il giorno del giudizio, Tu hai messo nel mio petto il fuoco di Allah Hu! Tu hai fatto della mia vita un marchio che brucia, Tu solo sei il mio desiderio, Tu solo la mia ricerca. Se non mi sei vicino, la città tutta è come deserto, Se mi sei vicino, vie e balconi non son più deserti! Concedimi quell’antico nettare della conoscenza, Che ho cercato senza fine, rotte le coppe e le tazze! Coppiere, un tuo sguardo generoso da lungo atteso, Le coppe e tazze dei gaudenti, le caraffe dei mistici. La mia pazzia Ti rivolge una lamentela e protesta: Per Te hai scelto gli spazi, per me le quattro mura. Cos’altro è l’essenza della filosofia e della poesia Se non desiderio di chi non può parlare viso a viso? 122. LA MOSCHEA DI CORDOBA (Scritta in Spagna, nella moschea di Còrdoba) Una catena di giorni e notti, creatrice di eventi, Una catena di giorni e notti, fonte di vita e morte, Una catena di giorni e notti, filo bicolore di seta, Con cui l’Essenza intesse la veste degli attributi. Una catena di giorni e notti, lamento di armonia, Con cui l’Essenza rivela le tonalità del cosmo. Mette alla prova te, mette alla prova ancora me, Una catena di giorni e notti, crogiolo del mondo. Se tu fallisci alla prova, se io fallisco alla prova, Morte è il tuo destino, morte pure il mio destino. Che altro significato hanno le tue notti e giorni? Uno scorrere del tempo privo di giorni e di notti! Effimeri e transitori sono tutti i miracoli dell’arte, Incostante è l’opra del mondo, sempre incostante. Morte è il Primo e l’Ultimo, l’Intimo e l’Esterno, Sia nuovo o vecchio il disegno, la mèta è la morte! Eppure in quel disegno si cela un colore d’Eterno, Opera fatta dalla mano di un qualche uomo di Dio. L’opera dell’uomo di Dio riceve luce da Amore, Amore è fonte di vita, su di lui la morte è divieto. Rapido o lento che sia il fluire lungo del Tempo, L’Amore stesso è un torrente che resiste a torrente. Nel calendario d’Amore, oltre al tempo che scorre, Ci sono altri tempi che non hanno un proprio nome! Amore è il respiro di Gabriele, è il cuore del Profeta. Amore è messaggero di dio, Amore è parola di Dio! È per ebbrezza d’Amore che brilla il volto della rosa. L’Amore è il primo vino, è la coppa dei cuori nobili! L’Amore è il custode del tempio, è il capo di eserciti, L’Amore è un antico viandante che ha mille dimore! Per il plettro d’Amore risuonano le corde della Vita, Dall’amore provengono la luce e il fuoco della Vita. O tempio di Còrdoba! Dall’Amore deriva la tua vita, Amore è l’Eternità che non conosce andare o essere! Sia colore o sia un sasso, liuto che sia o voce che sia, Dal sangue del cuore deriva il miracolo dell’Arte! Una goccia ardente di sangue muta la pietra in cuore, Dal sangue del cuore è voce, passione, gioia e canto. Il tuo spazio scalda il cuore, il mio canto arde il petto, Da te la presenza di cuori, da me lo sbocciare di cuori. Il petto di Adamo non è minore del trono del cielo, Anche se il confine di quel pugno di polvere è il cielo. E che, anche se gli angeli si genuflettono in preghiera, Possiedono forse il fuoco degli uomini che pregano? Io sono un pagano figlio d’India, guarda la mia brama, Nel cuore canti e preghiere, sul labbro canti e preghiere. C’è passione nella mia melodia, passione nel mio liuto, Nelle mie vene e sangue c’è il grido “Allah è grande!”. La tua Maestà e Grazia sono prova di un uomo di Dio, Egli è maestoso e grazioso, tu più maestoso e grazioso. Il tuo edificio è possente, le tue colonne innumerevoli, Sono come una folla di palme nel deserto della sera. Sulle tue mura e sui tetti c’è la luce della valle del Sinai, Sul tuo minareto il trono alto e splendente di Gabriele. Mai scompariranno i musulmani perché nei loro azan Si manifestano i segreti di Mosé e quelli di Abramo. Per lui la terra non ha limiti, il suo cielo non ha confini, Tigri, Danubio e Nilo sono onde che vanno al suo mare. Miracolosi sono i suoi tempi, meravigliose le sue storie, All’èra vecchia e vetusta egli diede il segnale di addio. Coppiere di uomini raffinati, cavaliere di pura passione, Il suo vino è puro, la sua scimitarra di acciaio tenace. Un guerriero armato e protetto dalla corazza La Allah, All’ombra delle spade armato e protetto dal La Allah. In te, nelle tue pietre si manifesta il segreto del credente, Il palpito dei suoi giorni di fuoco, l’ardore delle sue notti. La sua alta posizione, i suoi pensieri sublimi come monti, La sua gioia, il suo ardore, la sua umiltà, il suo orgoglio. La mano del fedele che crede è simile alla mano di Dio, Vittorioso, creatore, possente, benefico, forte, dominante. Fatto di polvere e di luce, creatura divina, fatta di purezza, Il suo fiero cuore è incurante di entrambi i due mondi. Poche sono le sue speranze terrene, sublimi i suoi ideali, Accattivanti sono i suoi modi, accarezzante il suo sguardo. Gentile respiro la sua parola, caldo respiro la sua ricerca, In guerra o in pace, cuore puro, condotta e coscienza pura. Il centro del compasso di Dio è la fede sicura dell’uomo, E tutto l’universo è solo miraggio, vacuità, capriccio, mito. Lui è la mèta della Ragione, Lui è il prodotto dell’Amore, Lui il fuoco degli uomini nei vasti orizzonti della creazione. Sacrario degli amanti dell’arte! e potenza visibile della fede, Hai un tempo reso sacra la terra d’Andalusia come Mecca. Se, sotto questi cieli, dimora qualcuno tuo pari in bellezza, Esiste solo nel cuore dei musulmani e in nessun altro luogo. Quegli uomini giusti e valorosi! quegli arabi forti cavalieri, Modelli di nobile carattere, portatori di fede e credi certi, Il cui dominio e il cui imperio rivelò quest’umile simbolo: “La povertà è il regno dei saggi, non gloria e fasto regale”. I loro sguardi educarono i popoli di Occidente e di Oriente, All’oscurantismo d’Europa la loro saggezza mostrò la via. Ancor oggi il loro sangue scorre nella gente dell’Andalusia, Cuori felici e amicizia calda, le loro fronti semplici e serene. Ancor oggi in questo paese scintillano gli occhi di gazzelle, Ancor oggi occhi nerissimi entrano nel cuore come frecce. Ancor oggi il profumo dello Yemen permane nelle brezze, Ancor oggi i colori del Hijaz permangono nelle melodie. Cielo è la tua terra agli occhi viandanti delle stelle e pianeti, Ahimè, per molti secoli il tuo spazio rimase senza l’azan. In quale vallata si è perduta, in quale località remota o sosta Si trova o si aggira la dura carovana dell’Amore senza pace? La Germania vide molto tempo fa il tumulto della Riforma, Che non lasciò in nessun luogo una traccia d’antichi modi. La castità dei preti diventò parola falsa e favola leggendaria. E la nave del pensiero corse fragile e più leggera sulle onde. Anche l’occhio della Francia vide la Rivoluzione grandiosa Che trasformò ad un tratto tutto il mondo dell’Occidente. La nazione, erede di Roma, al vecchio e disuso paganesimo Ha sostituito anch’essa il gusto puro del rinnovamento. Nello spirito dei musulmani c’è oggi quella stessa ansia, La lingua non può ridirlo perché è questo un segreto di Dio. Guardate, cosa è che sorge dal fondo del mare e sommuove, Guardate, cosa è che cambia e tramuta la cupola azzurra? Sulle vallate dei monti si annega una nube crepuscolare, Il sole al tramonto ha lasciato un mucchio di rossi rubini. Semplice e dolente risuona il canto della ragazza del paese, Per la barca del cuore simile a un torrente è l’età giovanile. O acque del Guadalquivir! Lungo le tue rive un qualcuno Osserva il sogno di altri tempi lontani nelle spire del Tempo. Ma un mondo nuovo è ancora nascosto nel seno del Destino. Nei miei sguardi scintilla la sua alba svelata di quel tempo. Se io togliessi il velo dalla maschera dei miei puri pensieri Non sopporterebbe il Franco l’ardore forte del mio canto. Morte è quella vita nella quale non ferve rivoluzione alcuna, Per i popoli la vita dell’anima è lotta di rivoluzione e rivolta. Simile ad una spada, nella mano del destino, è quel popolo Che in ogni tempo o èra sa tenere in conto le proprie azioni. Senza il sangue del cuore incompleti sono tutti quei disegni, Senza il sangue del cuore triste malinconia diventa il canto! 123. IL LAMENTO DI MU’TAMID IN PRIGIONE Mu’tamid fu re di Siviglia e poeta arabo, sconfitto e fatto prigioniero da un re di Spagna. Le poesie di Mu’tamid sono state tradotte in inglese e pubblicate nella serie “Wisdom of the East”. Nel mio petto corre un grido di dolore Vive da solo, privo di passione e forza! Un uomo libero è inerme in prigionia, Sono in disgrazia e senz’alcun aiuto! Il mio cuore si è per istinto incatenato, Forse la mia spada era di uguale acciaio! La spada bilama si è tramutata in catene, Com’è strano e debole l’autore del fato. 124. IL PRIMO ALBERO DI DATTERI PIANTATO DA ‘ABD AR-RAHMAN I In terra andalusa Questi versi di ‘Abd ar-Rahman I sono citati nel Tarikh al-Maqqari. La poesia urdu che segue è una traduzione letterale (l’albero qui menzionato fu piantato a Madina al-Zahra) Tu sei tutta la luce dei miei occhi, Tu sei tutta la gioia del mio cuore. Io sono lontano dalla vallata, Tu sei per me il dattero di Tur. Tu sei una huri del deserto arabo, Nutrita dalla brezza occidentale. Nell’esilio ho nostalgia di casa, Nell’esilio hai nostalgia di casa. Prospera in questa terra straniera, Possa la rugiada toglierti la sete! Il mondo mostra una strana vista, Il mantello della visione è lacero. Possa il valore lottare con le onde, L’altro lato del fiume non si vede, La vita nasce dal cuore dell’anima, La fiamma non nasce dalla polvere. Le stelle cadenti della sera di Siria Lucevano di più nell’ora dell’esilio. Non ci sono confini per il fedele, Perché si trova a suo agio ovunque. 125. SPAGNA (Scritta in terra di Spagna, al ritorno) Custode del sangue dei Musulmani, tu sei, o Spagna, Al mio sguardo, quale purissimo santuario tu appari. Nella tua polvere sono ascose tracce di teste prostrate, Nella tua brezza d’aurora echeggiano silenti orazioni. Lucenti come stelle e pianeti erano le lance di coloro Che sui tuoi monti e declivi piantarono un dì le tende. C’è ancora bisogno di henné per le tue belle di oggi? Le vene del cuore hanno ancora colore di sangue! Perché si nasconde il musulmano tra paglia e sterpi? Nella sua febbre non c’è più né fiamma né scintilla. I miei occhi hanno ancora visto Granada, ma niente Consola il viaggiatore, né il viaggio, né la presenza. Ho veduto e ho mostrato, ho sentito e ho raccontato, Ma non consola più il cuore né la visione né la fama. 126. LA PREGHIERA DI TARIQ (Sul campo di battaglia di Andalusia) Questi combattenti, questi tuoi fedeli Ai quali hai dato il desiderio di Dio. Fiumi e deserti essi tagliarono in due, Il loro terrore mutò i monti in polvere. Il loro cuore fu estraneo ai due mondi, Grande è l’esaltazione dell’intimità. Testimoni sono il loro zelo e l’intento, Non il bottino, non il dominio di terre. Da quando l’aiuola attende il tulipano, Del sangue arabo si cerca la veste. Tu hai riunite assieme le singole tribù Nell’idea, nell’azione e nella preghiera. Il fuoco che la vita ha cercato per anni, Essi l’hanno trovato dentro i loro cuori. Pensano ai loro cuori come ad un inizio, Ché ai loro occhi la morte non è la fine. Al cuore del credente possa dare forza Il lampo nel grido “Non aver timore!” Ridesta nei loro petti la forza di volontà, Fa’ dei loro sguardi una spada tagliente! 127. LENIN (al cospetto di Dio) Dalla Tua santa parola deriva la vita, Sì, è vero, l’Essere Tuo vive in eterno. Ma, potevo sapere se Tu eri o non eri? La scienza cambia corso di ora in ora. Che ne sa la scienza del canto eterno? L’astronomo del cosmo o l’erborista? Oggi ho visto la verità di quel mondo, Che ritenevo vecchie favole di chiesa. Noi lottiamo legati ai giorni e alle notti, Tu plasmi e custodisci gli attimi eterni. Permettimi di rivolgerTi un problema, Che i saggi non hanno potuto risolvere. Quando vivevo sotto il tetto delle stelle, Questo problema era per me come spina. Nell’agitazione della piena dei pensieri, Non potevo trattenermi dal manifestarli. Oh, di quale razza mortale Tu sei il Dio? Di quella creatura che vive sotto il cielo? Il dio dell’Asia è l’uomo bianco europeo, Il dio dell’Europa è il metallo che riluce. L’arte e la scienza illuminano l’Europa, Quelle tenebre non hanno Acqua di Vita. Per magnificenza, bellezza e grandezza, Lì, le loro banche superano le cattedrali. In apparenza commercio, in realtà usura, Il profitto di uno è la morte di centomila. La scienza, il sapere, l’arte della politica, Bevono sangue e predicano uguaglianza. Disoccupazione, alcolismo, nuda miseria, Sono le conquiste della civiltà europea! Privata della grazia celeste, una nazione Resta schiava dell’elettricità e del vapore. Le macchine sono la morte per il cuore, Gli strumenti ci privano del senso umano. Gli effetti visibili qua e là sono tali che un Fato arbitrario sconfigge il libero arbitrio. La Taverna trema, le fondamenta vacillano I saggi d’Europa se ne stanno impensieriti. Il rossore che appare alla sera sui loro volti Deriva da un cosmetico o è frutto del vino. Tu onnipotente e giusto: amare sono le ore, Ma più amara è la sorte di tutti i lavoratori! Quando naufragherà la nave del capitalismo? Il mondo si attende da Te la resa dei conti. 128. IL CANTO DEGLI ANGELI La ragione è senza freno e l’amore senza dimora! O creatore dell’eternità, il tuo piano è incompleto! Giuristi, bevitori, principi e preti sono in agguato, Nel Tuo mondo i giorni e le notti non sono mutati! I Tuoi ricchi sono negligenti, i Tuoi poveri paghi, Lo schiavo si affanna, i muri del signore sono alti. Sapere, religione, scienza sono mezzi per il potere, La grazia dell’amore che redime non ci è concessa. L’essenza della vita è l’amore, l’amore è il Khudi, Ahimè! questa spada tagliente è chiusa nel fodero! 129. IL COMANDO DI DIO (agli angeli) Insorgete e risvegliate tutti i poveri del mio mondo! Scuotete i muri e le finestre delle dimore dei grandi! Accendete con la fede il sangue pigro degli schiavi! Incoraggiate il passero ad affrontare l’odio del falco! È sempre più vicino il tempo del regno dei derelitti! Cercate e annullate per sempre le tracce del passato! Trovate i raccolti che non sono il pane del contadino, Ammassate nella fornace ogni spiga matura di grano! Cacciate dalla moschea il prete che biascica orazioni, Separate come un velo la creazione dal suo Creatore! Prostrazioni e orazioni dell’uomo sono inganni a Dio. Spegnete la luce nel mio santuario e nei loro templi! Costruite per me un altro tempio, fate muri di fango, La Mia vista non ne può più di colonnati di marmo! Il loro bel mondo è un negozio di oggetti luccicanti, Insegnate al mondo la civiltà folle del vate dell’est! 130. GUSTO E DESIDERIO (La maggior parte di questi versi fu scritta in Palestina) Mi spiaceva tornare da quei giardini, a casa, a mani vuote, dai miei amici Nel deserto all’alba è la vita del cuore e degli occhi, Dalla fonte del sole scorrono ruscelli di chiara luce. Il velo dell’essere si apre e appare l’antica bellezza. Perdere uno sguardo è per il cuore mille guadagni. Sparve la nube notturna lasciando tracce blu-rosse, Dando al monte Azamm una coda di vari colori. Senza polvere è l’aria, tremano le foglie delle palme, Soffice è la sabbia come seta nei pressi di Kazima. Qui si spengono i fuochi, lì restano pali rotti di tende. Chissà mai quante carovane vi si saranno fermate! La voce di Gabriele mi disse: ”Questo è il tuo luogo, Questa è per gli amanti del distacco la vita in eterno”. A chi narrare che per me è veleno il vino della vita? Vecchio è il banchetto del mondo e nuovi i miei casi. Non c’è un altro Ghaznevide nel mondo della vita? Da quanto tempo attendono gli idolatri di Somnath? Si ricordano la passione araba e il pensiero persiano, Non più la visione degli Arabi, la fantasia di Persia. Nella carovana in Hijaz non c’è più ora un Husain Anche se splende la treccia del Tigri e dell’Eufrate. Alla ragione, al cuore e alla vista la guida è l’amore, Senza amore precetti e religione sono templi vuoti. Amore fu la fede di Abramo, la pazienza di Husain, Amore fu Badr e Hunayn nella lotta dell’essere. O Tu, inaccessibile significato nella frase del mondo Alla tua ricerca si mossero carovane di colori e odori. I seguaci delle scuole sono diventati ciechi e insipidi, I seguaci della taverna non hanno più arguzia e vino! Pure nel mio ghazal ho l’impronta di antichi fuochi, Tutta l’opera mia è la ricerca di un regno scomparso! L’onda della brezza mattutina fa crescere gli sterpi, L’onda del mio respiro fa crescere brama e desiderio. La mia melodia s’è nutrita del sangue del mio cuore, Il sangue del menestrello scorre nelle vene del liuto: “Non fare che il cuore inquieto si chiuda all’amore, Aggiungi ancora un ricciolo alla treccia lucente”. Tu la Tavola, Tu il Calamo, e il Tuo essere è il Libro, Una bolla nel tuo cerchio è la cupola blu dell’empireo. Nel mondo d’acqua e terra si distende il tuo splendore, Al granello di sabbia Tu hai dato una sorgente di sole. La gloria di Salim e Sanjar è segno della Tua gloria, La povertà di Bayazid e Junaid sono la Tua grazia. Se la brama di Te non è l’imam della mia preghiera, Un velo è lo stare in piedi, un velo è il prosternarsi. Nel Tuo sguardo entrambi han trovato il fine ultimo, La Ragione assenza-ricerca, l’Amore presenza-fremito. Il corso del sole ora mi sembra oscurità per il mondo, Dallo splendore svelato deriva al Tempo nuova natura. Nel tuo sguardo ci sono i miei giorni trascorsi e le notti, Non sapevo, io, che la scienza fosse una palma sterile. Nella mia mente s’è risvegliato il conflitto dell’essere, Mustafa amore vero, Abu Lahab scienza perfetta. Ora rapisce di astuzia, ora prende e trascina di forza, Meraviglia è l’inizio dell’Amore, meraviglia è la fine! Nel mondo vivo la separazione è preferibile all’unione, Nell’unione muore la brama, nel distacco c’è il piacere. Nell’attimo dell’unione non ho più desiderio di sguardi, Anche se il mio sguardo insolente ricerca dei pretesti! La separazione è fuoco di brama, è un tumulto di grida, La separazione è ricerca di onda, è l’onore della goccia! 131. LA FALENA E LA LUCCIOLA La falena La lucciola è molto lontana dallo status della falena; Perché è orgogliosa di un fuoco che non può ardere? La lucciola Sia ringraziato Dio cento volte che non sono falena; Ché non vado mendicando un fuoco a me estraneo. 132. A JAVED La vita di una nazione è rischiarata dal Khudi, Il sentiero che porta ad una vita eterna è il Khudi! Il punto è che Adamo è signore del suo proposito, Di una vita e di una tranquillità dalle mille facce. Il corvo legato al suolo non aspira al volo del falco Ma ne può corrompere le nobili ed elevate usanze. Possa Iddio fare di te un giovane buono e virtuoso, Tu vivi in un’epoca priva di decenza e di moralità. Iqbal non si è trovato a suo agio in un monastero, Perché è brillante, intelligente, vivace e spiritoso. 133. ELEMOSINA Nella taverna, un giorno, un bevitore così disse: “Il re della nostra città è un povero impudente. Molti si scoprono il capo per dargli una corona, Molti vanno nudi per dargli un mantello d’oro. Il sangue dei contadini diventa per lui vino rosso, La terra dei nostri campi diventa per lui un lusso. La sua ricca tavola è colma di ogni ben di Dio, Chi è colui che dona? Il miserabile e l’indigente. Il povero è chi chiede denaro, sia molto sia poco, I re che mostrano pompa e orgoglio sono poveri. (adattata da Anvari) 134. IL MULLAH E IL CIELO Ero presente e non potei frenare le parole, Quando il Signore diede al mullah il cielo! Con umiltà io mi rivolsi a Dio: perdonami, Egli non cerca vergini, vino e campi fertili. Non è luogo di contesa o litigio il paradiso: Dispute e liti son la natura del servo di Dio. Il suo compito è insegnare male alle genti, Nel cielo non c’è moschea, chiesa, tempio. 135. LA RELIGIONE E LA POLITICA Il tipo di vita monacale fu la base della Chiesa, Il modo austero di vita non cercava ricchezze! L’anacoreta e il re sono sempre stati in guerra, Uno possiede l’umiltà, l’altro il potere sovrano. Infine, la politica si è separata dalla religione e Il capo della Chiesa è rimasto debole e inerme. Appena la religione e la politica si sono divise, È arrivata l’avidità del regnante e del ministro! Per entrambi, stato e chiesa, è stato un disastro, Ed entrambi mostrano di avere una vista cieca. È solo il miracolo fatto da chi vive nel deserto A far sì che la grazia diventi specchio al potere. La liberazione dell’umanità risiede nell’unità di Chi governa il corpo e di chi governa lo spirito. 136. LA TERRA È DI DIO Chi alimenta il seme nell’oscurità della terra? Chi solleva le nuvole dalle onde dell’oceano? Chi fa venire da occidente il vento benefico? Di chi è questa terra? Di chi è la luce solare? Chi ha riempito di perline la spiga del grano? Chi ha insegnato alle stagioni la successione? Latifondista, questa terra non è tua, non è tua! Né dei tuoi padri né tua, questa terra, né mia! 137. AD UN GIOVANE I tuoi divani sono europei, i tuoi tappeti persiani, A me quest’opulenza evoca un sospiro di pietà! Se tu non hai la pompa imperiale di un Cosroe, La forza di un Haider o la libertà di un Salman, Non cercare felicità o grandezza nell’occidente, Ché nel poco sta la grandezza di un musulmano! Quando lo spirito di un’aquila si desta nei cuori, Vede il suo scopo luminoso oltre i cieli stellati. La disperazione è il declinare della conoscenza, La speranza di colui che crede è confidare in Dio. La tua casa non è sotto la volta di un palazzo reale. Tu sei un’aquila e devi vivere sulle cime dei monti. 138. UN CONSIGLIO Ad un giovane falco una vecchia aquila disse: Tu le cui ali possono un giorno aspirare ai cieli, Gioventù è bruciarsi nel fuoco del tuo sangue. Nella lotta puoi addolcire l’asprezza della vita. Il piacere che provi nel balzare sulla colomba, Tu non lo trovi più nel sangue della colomba. 139. IL PAPAVERO DEL DESERTO O volta azzurra del cielo, o mondo solitario! Mi prende la paura in questo deserto solitario. Sperduto viandante io, sperduto viandante tu. Qual è la tua mèta, o papavero del deserto? In queste colline non dimorano più i profeti, Tu una fiamma del Sinai, io fiamma del Sinai. Tu sbocci dal ramo, ed io mi stacco dal ramo, È nato un desiderio? un impulso del piacere. La mano di Dio protegga chi cerca l’amore, Ogni goccia nel mare è profondità di mare. Piange l’occhio del gorgo dolente dell’onda Che, nata dal mare, non raggiungerà la terra. Il calore della terra assale il sangue dell’uomo, Al cospetto del sole, al cospetto delle stelle, tu Oh, brezza del deserto, possa essere anche mia Nel silenzio, e nel cuore ardente, e nell’estasi. 140. AL COPPIERE La carovana primaverile ha posto le tende, Il piede dei monti è diventato un paradiso. E la rosa, e il narciso, e il giglio, e la viola, Il papavero, sudario di sangue del martirio. Sotto un velo di colori si nasconde la terra, E nella vena della pietra circola il sangue. Nell’aria azzurra ci sono letizia e allegria, Nel nido gli uccelli svolazzano irrequieti. Scorre veloce dalla montagna il ruscello, Salta, si ferma, fa una curva, poi si ritira, Precipita, scivola, fa una sosta, riprende, E, riavvolgendosi, risgorga tutto attorno. Fermatosi, si fa quindi strada tra la roccia, Si apre la strada nel cuore delle montagne. Osserva un po’ il papavero, o Coppiere! Diffonde ovunque il messaggio della vita. Versami il vino che brucia il velo nascosto, Non c’è ogni giorno un raccolto primaverile. Quel vino che illumina il cuore della vita, Quel vino che è un tossico per il mondo. Quel vino che è la passione dell’Eternità, Quel vino che rivela il segreto dell’Eternità. Solleva il velo da quel segreto, o Coppiere, Il passero si confronta con il falcone regale, Come sono cambiate le usanze dell’epoca! Anche gli strumenti musicali sono cambiati. Il segreto dell’Europa è divenuto manifesto, Il giocoliere dell’Europa è preso da stupore. La vecchia politica è andata nel discredito, La terra è stata disillusa da signori e sultani. Il tempo del capitalismo è finito per sempre, Dato spettacolo, il giocoliere se n’è andato. Dal profondo sonno si riscuotono i cinesi, Dall’Himalaya risgorgano nuove sorgenti. Il cuore del Sinai e del Faran si è aperto, Mosé se ne sta in attesa della luce celeste. Il musulmano cerca di lottare per l’Unità, Il cuore del brahmano è legato al suo filo. La società, la teologia, la religione, l’arte, Sono tutti in adorazione di idoli forestieri. La verità si è persa nelle inutili assurdità, Questa nazione segue ancora la tradizione. Il sermone del mullah conquista il cuore, Ma non ha il piacere sincero del desiderio. Con la sua predica dimostra abilità logiche Ma si perde in destrezze e astuzie lessicali. Quel sufi che fu uomo di Dio un tempo, Senza rivali nell’amore, unico nell’onore, Si è perso seguendo le assurdità straniere, Si è perso a metà strada in luoghi di sosta. Il fuoco dell’amore si è spento per sempre, Il musulmano è solo un mucchio di cenere. Versami ancora l’antico vino, o Coppiere, Fa’ girare ancora quella coppa, o Coppiere! Fammi volare ancora sulle ali dell’amore, Fa’ volare la mia polvere come una lucciola. Libera la mente e l’intelletto dalla schiavitù, Fa’ sì che i giovani siano maestri ai vecchi. Il ramo della nazione è fresco del tuo umore, Nel suo corpo il respiro viene dal tuo spirito. Dammi, la forza di fremere e vibrare ancora, Dammi la forza di ‘Ali, l’ardore di Siddiq. Fa’ che la freccia dell’amore penetri i cuori, Risveglia nei loro petti il desiderio ardente. Benedette siano le stelle nei Tuoi alti cieli, Benedetto chi passa le notti in Tua preghiera. Concedi alla gioventù la passione del cuore, Concedi loro il mio Amore, la mia Visione. Libera la mia barca dai mulinelli delle onde, Se si è incagliata, smuovila e falla viaggiare. Insegnami i segreti della vita e della morte, Ché nei tuoi sguardi c’è tutta la conoscenza. Il sonno e il sopore dei miei occhi lacrimosi, L’agitazione nascosta nell’intimo del cuore. La preghiera del mio lamento a mezzanotte, Il rimescolio dentro il mio io e il non-io. Le mie passioni, i miei desideri e gli ardori, Le mie speranze, i miei aneliti, i miei scopi. La mia natura è ora uno specchio del tempo, Un pascolo per le gazzelle di idee e pensieri. Il mio cuore, un campo di battaglia della vita, Un esercito di dubbi e una prova di certezza. Ecco ciò che questo povero ha, o Coppiere, Nella mia povertà sono davvero un principe. Questo è tutto quanto affido alla carovana, Questo è tutto quanto spero che diventi suo. L’oceano della vita va avanti senza fermarsi, In ogni cosa, pur piccola che sia, batte la vita. Si rivela e si manifesta in tutto il suo corpo, Come nella fiamma si cela un’onda di fumo. Duro e difficile è il suo contatto con la terra, Ma desidera e vuole il duro e faticoso lavoro. È al tempo stesso immobile seppure mobile, Stanca delle pastoie e intrichi degli elementi. È un’unità, che è imprigionata nella pluralità, Ma è pur sempre unica, sola, non eguagliata. Ha fatto di questo mondo un tempio di vetri, Una scultura simile al tempio di Somnath. Non le piace vestire l’abito della ripetizione, Perché tu non sei me, perché io non sono te. Ha creato il mondo degli uomini e delle cose Ma, nella moltitudine, è sola con se stessa. Il suo splendore è nel lampo e nelle stelle, È nella luna, nell’oro, e nell’argento vivo. A lei appartiene il deserto e anche l’acacia, A lei appartengono le spine e anche i fiori. Talvolta la sua forza scuote le montagne, Talora la sua rete prende Gabriele e le huri. Talvolta i falconi dal colore argento perla Si abbeverano del sangue delle pernici. Talora la colomba, lontana dal suo nido, Cade nella rete che le è stata preparata. La pace duratura è una visione falsata, Tutte le particelle del mondo palpitano. La carovana della vita non può sostare, Ché ogni battito è nuova gloria di vita. Tu pensi che la vita sia solo un mistero, Di contro, la vita è solo gusto del volo. La vita ha visto spesso tanti alti e bassi, Ama fare un viaggio, non ama sostare. Per la vita il movimento è una musica, Il movimento è verità, la sosta illusione. Il piacere è cadere nella rete dei pericoli, Il riposo è origine di palpiti e di sussulti. Quando ci si trova di fronte alla morte. È molto difficile fermarla o trattenerla. Pertanto la vita è discesa su questa terra E si è trovata nella trappola della morte. Il gusto del doppio si è imposto quaggiù Dove tutte le cose sono nate in coppia. Se da quel ramo di albero il fiore cadeva, Da quest’altro ramo di albero sbocciava. Gli sciocchi pensano: la vita è effimera; La vita invece sorge e cessa e si rinnova. Si muove con grande velocità e rapidità, Dal principio alla fine in un solo respiro. Il tempo è un susseguirsi di giorni e notti, Non è che un alternarsi di soffi e respiri. Quest’onda dell’anima è come una spada, L’io che cos’è, il filo tagliente della spada. L’io che cos’è, l’intimo segreto della vita, L’io che cos’è, è il ridestarsi del mondo. L’io è solitudine e assorbimento estatico, Un oceano chiuso in una goccia d’acqua. L’io risplende nell’oscurità e nella luce, È innato in me e te, è lontano da me e te. L’inizio è dietro di lui, la fine davanti a lui, Nessun limite dietro, nessun limite davanti. Galleggia nelle acque del fiume del tempo, Sopporta la tirannia delle onde del fiume, Cambia sempre il corso della sua ricerca, Sposta sempre lo sguardo continuamente. Nelle sue mani una pietra pesante è lieve, I suoi colpi tramutano un monte in sabbia. Il suo viaggio è il cominciamento e la fine, Sta in questo il segreto del suo calendario. Nel raggio lunare, nelle faville della pietra, Non ha colore, pure è immerso nel colore. Non dimostra alcun interesse per il calcolo, Per profitto e perdita, per il dopo e il prima. Sin dall’eternità è un prigioniero nella lotta, Per prender forma nella polvere di Adamo. Nel cuore e nella mente è la dimora dell’io, Sta nella pupilla dell’occhio come il cielo. Per il guardiano dell’Io diventano un veleno Quel pane e quel cibo privati dell’acqua. Egli considera onorevole soltanto quel pane Che si è guadagnato col sudore della fronte. Rimani lontano dalla pompa di un Mahmud, Guarda al tuo Io, non diventare un Ayaz. È davvero nobile e bello prosternarsi a Dio, È ritenuto blasfemo prosternarsi a un uomo. Questo mondo, un tumulto di colori e suoni, Questo mondo, sotto il decreto della morte. Questo mondo, questo tempio, questi sensi, Dove la vita non è altro che mangiare e bere. Questo è un primo luogo di fermata dell’Io, Non è la tua abitazione finale, o viandante. Non è il posto dove accendere il tuo fuoco, Il mondo è per te, e non tu sei per il mondo. Oltrepassa la montagna difficile, scalandola, Supera l’illusione del tempo e dello spazio. L’Io è la Tigre di Dio, il mondo la sua preda, La terra è la sua preda, il cielo la sua preda. Altri mondi ci sono, non manifesti e visibili, Perché il cuore dell’esistenza non è vuoto. Ognuno è in costante attesa del tuo assalto, Dell’audacia del tuo pensiero e dell’azione. Questo è il fine della rivoluzione del tempo, Rendere a te manifesto e visibile il tuo Io. Tu sei il signore del mondo bello o brutto, Che posso io dirti del tuo destino ultimo? La verità è soltanto questa, un abito stretto, Il vero è uno specchio, la parola un’ombra. Nel petto si accende la fiamma dello spirito Ma l’ardore della parola vuole dire: “Basta. Se io mi risollevo in alto più di un capello, La vista dello splendore mi tarperà le ali.” 141. IL TEMPO Ciò che era, non è; ciò che è, non sarà; questo è invero il nocciolo del discorso, Molto più vicina è l’apparizione di ciò di cui il tempo rimane in costante attesa. Dalla mia fiasca scorrono, una goccia dopo l’altra, nuovi avvenimenti e cose, Giorno e notte li conto sul mio rosario, grano dopo grano, un grano dopo l’altro. Li conosco tutti complessivamente, ma li conosco singolarmente ad uno ad uno. Di uno il fantino, di un altro il destriero, di un altro la sella, di un altro la frusta. Se tu non hai fatto parte dell’assemblea, la colpa è mia o tua, la colpa tua o mia? Non fa parte del mio costume non bere il vino della notte per amore di qualcuno. Gli occhi dell’astrologo non sono in grado di vedere la mia natura inquieta e vivace, Il suo sguardo, privo di devozione, è come una freccia che cade lontana dal bersaglio. Non c’è tramonto sull’orizzonte europeo, è un fiume di sangue, un rosso brillante. Rimani in attesa del sorgere del domani, l’ieri e l’oggi sono una vecchia leggenda. Cos’è la mente irrequieta che ha liberato le forze della natura, strappandole le vesti? Alla fine un pericolo per le loro abitazioni giungerà dal tuono senza requie e tregua! A loro appartengono i venti aperti, i cieli, a loro i mari e gli oceani, e a loro le navi. Non serve sciogliere i nodi del vortice, perché? il vortice è una scusa del destino. Sta ora per affermarsi un mondo nuovo, mentre sta per morire il vecchio mondo, Quel mondo che i biscazzieri dell’Europa hanno trasformato in una casa da gioco. Anche se rapido e veloce soffia il vento, l’uomo saprà tenere accesa la lampada. Quel derviscio in cui alberga il giusto, che Dio ha fatto di stampo e natura regali. 142. GLI ANGELI SI CONGEDANO DA ADAMO CHE LASCIA IL PARADISO Ti fu data l’impazienza dei giorni e delle notti; Non si sa se sei di fango o di argento vivo! Si è udito che sei stato fatto di terra, ma pure La tua natura partecipa delle stelle e della luna! Eppure se tu vedessi in sogno la tua bellezza, Più dolce ti sarebbe il sonno che mille risvegli! Ben pesante e prezioso è il tuo pianto d’amore, Con il quale rinfreschi a vita la tua antica palma. L’essenza della vita si disvela nuda al tuo canto, È la natura stessa che batte le corde del tuo liuto. 143. LO SPIRITO DELLA TERRA SALUTA L’AVVENTO DI ADAMO Apri gli occhi, guarda la terra, il cielo, lo spazio! Guarda il sole che sorge a poco a poco ad oriente! Guarda questa gloria disvelata nascosta tra i veli! Guarda la crudeltà, il tormento della separazione! La lotta del timore e della speranza, con pazienza! Tu possiedi tutto, queste nuvole, questa pioggia, Questa volta celeste, queste vaste distese silenti, Questi monti e deserti, questo mare, questi venti, Erano i gesti degli angeli dinanzi alla tua visione. Oggi nello specchio del tempo mira il tuo volto! Il tempo capirà i cenni silenziosi dei tuoi occhi, Le stelle del cielo da lungi ti vedranno, da lungi. Invisibili sono le rive del mare del tuo pensiero. Le scintille dei tuoi sospiri giungeranno al cielo. Costruisci il tuo io! guarda il segno del sospiro! In ogni scintilla c’è il calore del sole del mondo, Nell’arcano della tua arte c’è un mondo nuovo. Ai tuoi occhi, il dono del Paradiso a nulla vale. Nel sangue del tuo cuore si nasconde il paradiso. Ecco il premio della lotta, o immagine di fango! Dall’eternità ogni corda dell’arpa vibra e geme, Dall’eternità tu fosti il cliente di oggetti d’amore, Dall’eternità il sacerdote del tempio dei misteri, Dall’eternità soffrendo e versando sangue vivo. La tua volontà cavalca il destriero del Destino. 144. IL MAESTRO E IL DISCEPOLO Il discepolo indiano Gli occhi che vedono sanguinano per il dolore, In quest’era la fede è distrutta dalla conoscenza! Rumi Gettala sul corpo e la conoscenza diventa veleno! Gettala sul cuore e la conoscenza diventa la vita! Il discepolo indiano O maestro di coloro che amano il Signore Iddio, È ancora in me il ricordo delle tue nobili parole! Da quali recessi giunge questa voce amichevole, Sottile, fievole, indistinta, asciutta come canna! Nel mondo d’oggi c’è una tristezza senza fine, Non c’è gioia, non c’è amore, non c’è certezza! Che cosa può sapere il mondo di questo mistero, Sa forse chi sia l’amico e quale sia la sua voce! Ah, Europa! nella tua ostentazione appassionata Il suono della tua musica è un lamento funebre! Rumi Non ogni orecchio si intona alla parola del vero, Non ogni fico si confà al palato di ogni uccello! Il discepolo indiano Sono padrone della conoscenza dell’Est e Ovest, Nella mia anima c’è ancora angoscia e afflizione! Rumi Gli impostori sono quelli che ti fanno ammalare! Vieni da noi che conosciamo un rimedio per te! Il discepolo indiano Ah, un tuo sguardo saggio illumina il mio cuore, Spiegami il significato dell’ordine della jihad. Rumi Distruggi l’immagine di Dio per comando di Dio, Distruggi il bicchiere dell’amico con la sua pietra. Il discepolo indiano Gli occhi orientali sono abbagliati dall’Occidente, Le ninfe occidentali appaiano più belle delle huri. Rumi L’argento brilla e riluce sempre più bianco e nuovo Ma non fa che annerire e scurire le mani e i vestiti. Il discepolo indiano Nelle scuole i giovani dal sangue caldo e impetuoso Diventano ahimè vittime della magia dell’Occidente. Rumi Quando un uccello implume tenta di lasciare il nido, Diventa facilmente il boccone prelibato di un felino. Il discepolo indiano Fin quando durerà questo scontro tra Stato e Chiesa? È veramente un atomo di terra superiore all’anima? Rumi Le monete contraffatte possono tintinnare di notte, Le monete d’oro sono tali solo alla luce del giorno. Il discepolo indiano Spiegami, quale è il segreto e il mistero dell’uomo, Spiegami, come la polvere è alla pari con le stelle! Rumi L’involucro esterno muore per il morso di un insetto, L’involucro interiore se ne va a zonzo per i sette cieli. Il discepolo indiano Tu puoi aiutare la polvere ad avere una vista lucente, Ma, lo scopo dell’uomo è la conoscenza o la visione? Rumi L’uomo è percezione, tutto il resto non è che pelle, La percezione, come è intesa, è la percezione di Dio. Il discepolo indiano Il mondo dell’Oriente vive attraverso i tuoi discorsi, Di che morte muoiono le molte e diverse nazioni? Rumi Tutte le nazioni morte e scomparse nei tempi passati, Lo sono perché hanno scambiato la pietra per incenso. Il discepolo indiano I musulmani non hanno ora più alcun vigore o forza, È forse per questo motivo che sono timidi e paurosi? Rumi Nessuna nazione va mai incontro al suo crepuscolo, Fino a quando non offenderà un’anima santa e divina. Il discepolo indiano Sebbene la vita sia diventata un mercato senza lustro, Quale tipo di affare può offrire un qualche guadagno? Rumi Metti in vendita l’abilità e compra ciò che meraviglia! L’abilità non è che dubbio, la meraviglia è percezione. Il discepolo indiano I miei pari si divertono nelle corti con re e imperatori. Mentre io sono un mendicante, nudo e a capo scoperto. Rumi Essere schiavo di un uomo dal cuore illuminato e vivo È di certo meglio che governare sui signori del mondo. Il discepolo indiano Mi trovo in difficoltà e non riesco a capire il problema Riguardante i detti del Profeta e il libero arbitrio. Rumi Sono le ali che portano il falcone a diventare sovrano, Sono le ali che portano il corvo direttamente alla tomba. Il discepolo indiano Dimmi, qual è lo scopo della via o sentiero del Profeta? Il dominio di tutta la terra o la seclusione dell’eremita? Rumi Nella nostra fede la prudenza decreta guerra e potere, Nella fede di Gesù la prudenza è una cava e un monte. Il discepolo indiano Dimmi, in quale modo si può disciplinare il corpo? Dimmi, in quale modo si può risvegliare il cuore? Rumi Sii obbediente, cavalca sulla terra come un cavallo, Non alla stregua di un cadavere portato sulle spalle. Il discepolo indiano Non so e non conosco i segreti e i misteri della fede, In quale modo posso io credere nel Dì del Giudizio? Rumi Sii tu il Dì del Giudizio e vedrai il Dì del Giudizio! È questa la condizione per poter vedere ogni cosa! Il discepolo indiano L’Io, l’Ego o khudi si libra alto nei cieli! Il khudi ha come preda il sole e la luna! Privato della Presenza, basato sul vivere! Stanco e reso povero dalle sue stesse prede! Rumi Solo l’amore è fatto per essere inseguito, Ma chi mai può intrappolarlo in una rete? Il discepolo indiano Tu conosci e comprendi il cuore dell’universo, Spiegami, come può una nazione essere forte? Rumi Se sei un granello, sarai becchettato dagli uccelli, Se sei un fiore in boccio, sarai colto dai monelli! Nascondi il tuo granello e diventa una trappola, Nascondi il fiore in boccio e diventa un campo! Il discepolo indiano. Tu mi hai detto di andare alla ricerca del cuore, Di essere un cercatore e di essere in un conflitto. Quello che è il mio cuore si trova nel mio petto, Quella che è la mia perla giace nel mio specchio. Rumi Tu dici di possedere similmente un cuore, Il cuore non è in basso, ma è nell’empireo. Tu stesso pensi che il tuo cuore è un cuore, E rinunci alla ricerca dei cuori illuminati. Il discepolo indiano La mia mente si libra nei voli eterei, Ma il mio corpo striscia su questa terra. Ho fallito negli affari di questo mondo: Calci e schiaffi sono quanto ho ottenuto. Perché non posso raggiungere il mondo? Il savio è nella fede, lo stolto nel mondo? Rumi Colui che può scalare le altezze del cielo, Può trovare facilmente la strada della terra. Il discepolo indiano Qual è il segreto del sapere e della saggezza? E come essere forniti di passione e dolore? Rumi Sapere e saggezza sono il frutto di vita onesta; Amore e estasi sono il frutto di una vita onesta. Il discepolo indiano Il mondo mi chiede di vivere tra gli uomini, Ma il canto nasce solamente nella solitudine. Rumi Tieniti lontano dalle folle estranee, non da Lui. Ricopriti per l’inverno, non per la primavera. Il discepolo indiano In India non c’è ora luce di visione o desiderio, Gli uomini dal cuore illuminato vivono tristi. Rumi Infondere calore e luce è compito dei forti, Astuzia e impudenza è rifugio dei mediocri. 145. GABRIELE E SATANA Gabriele O antico compagno! Come va il mondo terreno? Satana Dolore e passione, pena e affanno, ricerca e desiderio. Gabriele Ogni ora nell’alto delle sfere celesti si parla di te; Non è possibile ricucire lo strappo della tua veste? Satana Oh, Gabriele, tu non conosci nulla di questo segreto. Spezzandosi, mi ha dato alla testa la coppa di vino. Ora qui, nel cielo, mai più potrei, mai più rimanere. Com’è silente questo mondo, senza case né strade! Io dalla cui disperazione deriva la vampa del mondo Non potrei dire ‘dispera’ anziché ‘non disperare’. Gabriele Con il tuo rifiuto hai rinunciato ad un posto sì elevato. Al cospetto di Dio che figura hai fatto fare agli angeli! Satana Per il mio coraggio in un pugno di terra è nato il gusto. Le mie ribellioni sono l’ordito della veste della ragione. Dalla riva tu vedi solamente la lotta tra il bene e il male; Chi prende gli schiaffi dell’uragano? Tu forse, o non io? Impotenti sono Khizar la guida, ed Elia il profeta, Ma le mie tempeste sono oceani, mari, fiumi decuplicati. Se mai tu fossi, un giorno, in privato con Dio, chiediGli: ‘Chi ha colorato di rosso vampante la storia di Adamo?’ Nel cuore di Dio io sono una spina che punge acremente Ma tu non fai che cantare:Allah hu, Allah hu, Allah hu. 146. IL RICHIAMO ALLA PREGHIERA Una notte la stella del mattino disse alle stelle: ‘Avete mai visto un qualche uomo vegliare?’ Il lucente Mercurio rispose:‘Il destino è saggio, Il sonno è la punizione del piccolo provocatore’. Disse Venere: ‘Non abbiamo altro da parlare? Perché pensare a questo cieco insetto notturno?’ Prese a dire la luna piena: ‘È una stella terrena; Tu sei visibile di notte, lui è visibile di giorno. Lascia che gusti il piacere di vegliare di notte; Più alta delle Pleiadi è questa polvere di uomo! Tiene racchiuso nel suo seno quello splendore Che eclissa tutte le stelle ed i pianeti del cielo’. All’improvviso giunge il richiamo dell’azan, Quel grido che scuote il cuore delle montagne. 147. AMORE Né pagani né musulmani sono i martiri dell’amore, Le maniere dell’amore non sono né turche né arabe. Altra cosa che non l’amore è il potere che ha spinto Il Ghaznevide a fare affidamento sul suo schiavo. Se sul trono non c’è posto per lo spirito dell’amore Il sapere e la conoscenza non sono che un inganno. Non ha timore alcuno del sultano, né lo corteggia, L’amore è libertà e onore, disprezzando il mondo. La mia povertà val più della pompa di Alessandro. Quest’uomo è vivo, quello è uno specchio magico. 148. IL MESSAGGIO DI UNA STELLA Non può spaventarmi l’oscurità dello spazio, Nella mia natura ci sono purezza e splendore. Viandante della notte, fa’ di te una lampada, Illumina la notte con la fiamma del tuo cuore! 149. A JAVED (nel ricevere la sua prima lettera da Londra) Nel paese dell’amore costruisci casa e focolare! Costruisci il tempo, un’alba e una vigilia nuove! Il tuo parlare, se Iddio ti rende amica la natura, Sia fatto del silenzio della rosa e del tulipano! Non chiedere favori ai preziosi vetrai europei, Modella il tuo bicchiere con la creta dell’India! I miei canti sono i chicchi dell’uva della vigna; Distilla dai grappoli il vino color rosso sangue! Il mio modo di vita è del povero, non del ricco! Non vendere il tuo khudi, fallo vivere in povertà! 150. FILOSOFIA E RELIGIONE Perché quest’alternarsi di giorni e notti? E che cosa sono il sole e i cieli stellati? Mi trovo nella mia terra o in un esilio? Mi incute timore la vastità del deserto! Non conosco il mistero della mia vita, Non so dove trovare uno che lo sappia. Abu Ali si chiede da dove provenga, E Rumi si chiede dove debba andare. Mi soffermo un po’ con ogni viandante, Ché non so ancòra chi sia la mia guida. 151. UNA LETTERA DALL’EUROPA Legati al presente non andiamo oltre le spiagge, Rumi è un oceano, tumultuoso e misterioso. Pure tu, Iqbal, fai parte della carovana dei fedeli D’amore dei quali Rumi è il capo carovaniere. Ha egli un messaggio per questa nostra epoca? Dicono che Rumi è la luce della via della libertà. 152. RISPOSTA Non mangiare fieno e avena come gli asini, Mangia dai fiori purpurei come il cerbiatto. Diventa vittima chi mangia fieno e avena, Diventa Corano chi beve la luce di Dio. 153. SULLA TOMBA DI NAPOLEONE Segreto mistero è il destino del mondo che scorre, Solo l’ardore dell’azione disvela i segreti del fato. Dall’azione si levò possente la spada di Alessandro E l’alto monte di Alvand si fuse per il suo calore. Dall’ardore dell’azione sgorgò la natura di Timur Di fronte alla quale che cosa sono gli alti e i bassi? Nelle file dei guerrieri il grido degli uomini di Dio Si tramutò per l’azione nella voce stessa di Dio. Ma breve è il tempo dell’azione, uno o due istanti, E per quei vividi istanti le lunghe notti della tomba. La nostra dimora finale sarà il Deserto del Silenzio, Risuoni sotto la volta celeste l’eco di un tumulto. 154. MUSSOLINI Pensiero e azione originali? gusto di rivoluzione! Pensiero e azione originali? vivacità della nazione! Pensiero e azione originali fanno miracoli di vita, Pensiero e azione originali fanno di pietre rubini! O Grande Roma! Invero mutata è la tua coscienza. Ciò che vedo, lo vedo da sveglio o addormentato? Negli occhi dei vecchi vedo lo splendore della vita, Nei petti dei tuoi giovani vedo l’ardente desiderio! Il calore dell’amore! quest’anelito! e questa fama! Nella stagione delle rose i fiori devono sbocciare! Ovunque risuonano ora nell’aria canti di passione, Il tuo strumento era in attesa di chi lo suonasse! Quale sguardo ha prodotto su di voi il miracolo? È di colui il cui sguardo è simile ai raggi del sole! 155. UNA DOMANDA Con grande rispetto un mendicante chiese a Dio: lamentarmi per i miei voti di povertà, Non intendo Ma vorrei sapere una cosa, è con il Tuo permesso Che gli angeli dispensano ricchezze agli indegni? 156. AL CONTADINO DEL PANJAB Rispondi, qual è il mistero di questa tua esistenza; Calpestata nella polvere è la tua storia millenaria! In questa polvere è stata soffocata la tua fiamma; Destati e ascolta il possente richiamo dell’aurora! Creature di polvere dalla terra ottengono il pane, Non di quell’oscurità si nutre il fiume della Vita! Nel mondo attuale non ottiene una vera gemma Colui che non mette alla prova il suo vero khudi! Distruggi e infrangi tutti gli idoli di tribù e casta, Distruggi e infrangi le usanze che legano l’uomo! Qui è la vera vittoria, qui c’è la corona della fede, Un solo credo e un solo mondo, via la divisione! Getta nel suolo della tua creta il seme del cuore, Quel seme è la promessa di un raccolto futuro! 157. NADIR SHAH DI AFGHANISTAN Con un carico di perle è partita dalla casa di Dio La nuvola che dà la vita al bocciolo della rosa! Lungo la via vide il paradiso e tremò di desiderio Scendendo in pioggia su quella deliziosa dimora. Una voce risuonò dal paradiso: Sono in tua attesa I prati verde smeraldo di Herat e Kabul e Ghazni. Spargi le lacrime di Nadir sulla ferita del tulipano E mai più si spenga la fiamma viva del tulipano! 158. IL TESTAMENTO DI KHUSHHAL KHAN Si uniscano in una unità della nazione tutte le tribù Sì che tutti gli afghani ne ricavino un loro prestigio. Il mio amore e il mio affetto è per tutti quei giovani Ai quali le stelle sono raggiungibili e a loro portata! In nessun modo e in nessun caso siano inferiori ai Moghul questi figli e abitanti delle alte montagne. Posso io dirvi o svelarvi il mio segreto, compagni, Khushhal Khan vorrebbe queste come sua tomba. Che sia situata lontano dalla polvere dei Moghul, Dalla polvere della cavalleria dispersa dal vento. 159. IL SOGNO TARTARO Ovunque tappeto e turbante son diventati malfattori, Ovunque gli sguardi giovanili lusingano gli uomini! Laceri sono il manto della religione e della nazione, A brandelli sono il manto del paese e dei governanti. La mia fede e credo sono per me duraturi e bastevoli, Ma giacciono sepolti sotto questi mucchi di inutilità. Le turbolenti ondate di numerosi venti hanno battuto l’umile polvere delle vie di Samarqanda e di Bokhara. Una gemma incastonata in un anello di miseria, Che mi avviluppa da ogni lato e parte io sono. All’improvviso ha tremato la polvere di Samarqanda E si levò una voce: “Io sono lo spirito di Tamerlano!” E da un’antica tomba centenaria brillò una luce pura, Come il primo raggio dell’alba, la voce di Tamerlano! Le catene possono attanagliare gli uomini di Tartaria, Ma i fermi propositi di Dio non sopportano i legami. È questo ciò che la vita riserba alle genti di Turania? Rinunciare, una dopo l’altra, a tutte le loro speranze? Infondi nell’anima dell’uomo un nuovo fuoco! Grida a tutta la terra una nuova rivoluzione! 160. MONDI SEPARATI Quando il cuore si illumina di una luce vitale, Il mondo ne è beneficato da una luce interiore. Qualunque condizione e stato vengono aboliti, L’iniziato si trova in un tempo e spazio diversi. Nelle parole e scuse non ci sono differenze, ma Il grido del mullah e del mujahid sono diversi. L’avvoltoio e l’aquila volano nella stessa aria, Ma l’uno in un suo mondo, l’altra in un altro! 161. ABU AL-‘ALA AL-MA’ARRI Si dice che al-Ma’arri non mangiasse carne; Si nutriva sempre e solo di frutta e vegetali. Un amico gli mandò una pernice arrostita Per indurre quel signore a mangiare carne. Quando al-Ma’arri vide l’elegante vassoio, L’autore di Ghufran e Luzumiat disse: Povero uccellino, vuoi dirmi il tuo peccato Per il quale ti è stata data questa punizione? Ahimè, tu non sei diventato uno sparviero, Il tuo occhio non ha visto i modi della vita. È l’eterno decreto del giudice che giudica, La debolezza è un crimine che merita morte. 162. CINEMA È proprio una statua che produce un idolo; È invero il cinema un commercio costoso? Non commercio, era il negozio dei pagani, Non commercio, è il negozio degli stregoni. Quella era la religione povera di un tempo, Questo è il creatore della civiltà moderna. Quella la terra del mondo, questo l’inferno, Quella il tempio polveroso, questo ceneri. 163. AI PIR DEL PANJAB Rimasi in piedi alla tomba del riformatore, Quella polvere che è sorgente di luce diffusa, Quella polvere di cui le stelle sono invidiose, Che ricopre un conoscitore di segreti ignoti, Che non chinò il capo neanche a Jahangir, Che rinfrescava con l’alito l’ardore del cuore, Che Allah ha inviato in India al tempo giusto Per essere custode della casa santa dell’Islam. Chiesi al sant’uomo qualcosa di non mondano Ché i miei occhi erano fiochi. Si udì una voce: ‘Terminato è il lungo elenco dei santi uomini. La terra del Panjab puzza alle narici dei buoni. La gente di Dio non ha nulla a che fare là dove Il copricapo del povero è ora un segno terreno. Quel cappello era fede, questo è ora un segno Del desiderio di approfittare del potere statale’. 164. LA POLITICA In questo gioco a scacchi bisogna fissare le regole, Stabiliamo ora che tu sei la regina ed io il pedone! Nella scacchiera il pedone non ha un grande ruolo, Ma pure la regina ignora la strategia del giocatore! 165. POVERTÀ C’è una povertà che rende il cacciatore una preda! E c’è un’altra povertà che disvela i segreti del potere! C’è una povertà che rende le nazioni povere e misere! E c’è un’altra povertà che fa della proprietà un elisir! C’è una povertà che è tipica di Husain, ed è la mia! È la ricchezza di Husain ed è l’eredità dei musulmani! 166. KHUDI Non barattare il tuo Io in cambio di oro o argento, Non vendere una fiamma che arde per una scintilla. Sono queste le parole del poeta visionario Firdusi, Che diede all’Oriente l’alba di giorni più luminosi. Non fare il miserabile per amore di sporco denaro, Non contare le monete di rame anche se sono tante. 167. SEPARAZIONE Con fili d’oro il sole va intessendo Per il mondo un mantello di luce. Silente è la terra ed ebbra è come Rapita al cospetto dell’Altissimo. I mari e i monti, la luna e le stelle, Che ne sanno della separazione? Mio è il dolore della separazione, Mia è la polvere della separazione. 168. MONASTERO Segni e simboli non sono per questi tempi, Io non conosco l’arte del parlare contorto. Dov’è chi diceva:”Sorgi, in nome di Dio”; Nei monasteri vivono becchini e spazzini. 169. LA PETIZIONE DI SATANA Al Signore dell’Universo Satana disse un dì: Adamo, un pizzico di polvere, si agita troppo, Meschino pezzo di carne, vestito di abiti fini, Cervello pronto e sottile, cuore quasi morto! Quanto la legge sacra dell’Est non considera, Il sofistico dell’Ovest dichiara puro e verace. Non sai, Tu, che le vergini huri del paradiso Piangono vedendo i giardini diventati spogli? I politicanti sono diventati i satana dello stato, Non c’è più bisogno ora di me sotto il cielo! 170. SANGUE Se nel corpo il sangue è caldo, nessun timore, Se nel corpo il sangue è caldo, il cuore pulsa. Chi ha ricevuto questo dono munifico non ha Bisogno di ricchezze ed è ricco nella povertà. 171. IL VOLO Un albero disse un dì ad un uccello del deserto: La creazione si basa sul principio di ingiustizia Ché la creazione avrebbe potuto essere giusta! Oh se mi fosse stato concesso il dono delle ali! L’uccello del deserto diede una buona risposta: Via! Tu consideri la giustizia come ingiustizia. In questo mondo non ha diritto alle ali e al volo Chiunque non sia libero dalle radici della terra. 172. AL MAESTRO DI SCUOLA Il maestro di scuola è un architetto, Usa come materia l’anima umana. Ti è stato dato un buon consiglio, Te l’ha lasciato il saggio Qaani. Non creare un muro contro il sole Se vuoi avere il cortile luminoso. 173. IL FILOSOFO Poteva volare alto ma non aveva passione, Rimaneva estraneo al segreto dell’amore! L’avvoltoio volava nell’aria come aquila Ma non poteva ghermire una preda fresca! 174. IL FALCONE Ho lasciato quel luogo della terra Dove l’esistenza è acqua e miglio. A me piace la solitudine del deserto, Dall’eternità la mia natura è la strada. Non brezze, mazzi di fiori, usignuoli, Non sdolcinati melensi canti d’amore. Mi tengo lontano dall’aiuola dei fiori Che hanno la forza di sedurre il cuore. Vivo e pungente è il vento del deserto, Come il colpo del giovane coraggioso. Non ho fame di colombe o quaglie, io Ché la vita del falco è austera e rigida. Balzare, poi ritirarsi, e balzare ancora, Un mezzo per tenere caldo il sangue. Est ed Ovest è il mondo delle pernici, Mio è il cielo blu, illimitato, infinito, Io sono un vagabondo tra i volatili, Ché il falco non si costruisce un nido. 175. DISCEPOLI IN RIVOLTA Non un filo di luce nella nostra casa, Il nostro maestro ha la luce elettrica. Città o paese il musulmano è sciocco, Si prosterna al brahmano della Ka’ba. Non doni, gli interessi il santo chiede, Sotto un abito religioso c’è l’usuraio. Questi eredita il suo posto autorevole Così come i corvi il nido dell’aquila. 176. IL TESTAMENTO DI HARUN Arrivato il tempo, Harun disse al figlio: Anche per te verrà un giorno il tuo tempo. L’infedele non vede l’angelo della morte, Ma l’occhio del musulmano lo distingue! 177. ALLO PSICOLOGO Trascendi l’intelletto se hai il coraggio di farlo, Ci sono ancòra zone celate nell’oceano dell’Io! Non disvelare i segreti di quest’oceano silente, Finché lo tagli con il colpo della verga di Mosé. 178. L’EUROPA L’usuraio ebreo che vince il leone per bravura Attende da gran tempo, speranzoso e fiducioso. L’Europa è lì per cadere come una pera matura, Stiamo a vedere in quale sacca andrà a finire! 179. LIBERTÀ DI PENSIERO Precipitare al suolo è il destino di quell’uccello, Che per la duplice natura non è idoneo a volare. Non ogni cuore è una dimora per il pio Gabriele, Né può ogni pensiero cogliere a volo il paradiso. Pericolosa è l’estasi del pensiero in una nazione, Dove gli individui non osservano alcuna regola. Anche se l’intelletto donatoci è la luce di un’età La libertà di pensiero è un concetto diabolico. 180. IL LEONE E IL MULO Il leone Tu sei diverso dagli altri abitanti della natura, Chi sono i tuoi genitori e antenati, e la tribù? Il mulo Forse Lei non conosce il fratello di mia madre, Galoppa come il vento, è l’orgoglio della stalla. 181. LA FORMICA E L’AQUILA La formica Sono davvero miserabile e trascurata, Perché il tuo posto è più alto dei cieli? L’aquila Tu ti nutri in luoghi bassi e polverosi, Il mio sguardo spazia sui nove cieli! 182. FRAMMENTO La mia natura è simile a brezza mattutina, Ora è mite e tranquilla, ora forte e veloce. Di raso e velluto rivesto i tulipani e le rose Le spine rendo affilate e aguzze come aghi! 183. FRAMMENTO Il mentore disse ai discepoli un giorno: Le mie parole valgono più di pure perle, Nel vino degli europei c’è del tossico, La loro progenie non ha orgoglio o virtù. NOTE E RIFERIMENTI Introduzione Speeches and Statements of Iqbal, compiled by “Shamloo”, Lahore, al-Minar Academy, 1945, p.131. Cit. in T. W. Wallbank, A Short History of India and Pakistan from Ancient Times to the Present, New York, New American Library, 1958, p.103. Gastone Breccia, Il problema politico dell’India nel quadro costituzionale, Firenze, Sansoni, 1941, pp.80-90. Muhammad ‘Ali Jinnah (1876-1948), iniziò la sua vita politica nel 1910, anno in cui fu eletto deputato musulmano a Bombay, entrando nel 1913 nella Lega musulmana di cui fu eletto presidente a vita nel 1934 ricevendo dai seguaci il titolo di Qa’id-i A’zam; fu il primo Governatore Generale del Pakistan. M. K. Gandhi (1869-1948) detto il Mahatma, l’artefice della lotta non violenta. Cfr. la sua Autobiografia, a cura di C. F. Andrews, Milano, Treves, 1931; e Vito Salierno, Il Mahatma Gandhi attraverso i suoi scritti, Milano, Ceschina, 1969. Motilal Nehru (1861-1931) fu uno dei membri più influenti del Congresso. Ghulam Hussain Zulfiqar (a cura), Pakistan as visualized by Iqbal & Jinnah, Lahore, Bazm-i Iqbal, s.d., p.20. Chaudhri Rahmat ‘Ali, Pakistan, cit. in Hector Bolitho, Jinnah creator of Pakistan, London, J. Murray, 1954, p.125. Sulla sua lotta per la formazione del Pakistan, cfr. Vito Salierno, Pakistan, Milano, IsMEO, 1961; e soprattutto i discorsi di Jinnah, Speeches and writings, Lahore, 1947, voll.2. Da un discorso tenuto nel 1938 agli studenti di ‘Aligarh; cit. in H. Bolitho, p.100. Liyaqat ‘Ali Khan (1896-1951), principale sostenitore dell’opera di M. A. Jinnah, fu Primo Ministro del Pakistan sino alla morte (fu assassinato il 16 ottobre 1951 durante un discorso a Rawalpindi). Jawaharlal Nehru (1889-1964), il più influente uomo politico dopo Gandhi, Primo Ministro dell’India dal 1947 alla sua morte, autore di un importante lavoro The Discovery of India, scritto in cinque mesi nel carcere di Ahmadnagar nel 1944 (Calcutta, The Signet Press, 1946). G. Breccia, op. cit., pp.121-245. Virginia Vacca, L’India musulmana, Milano, ISPI, 1941, pp.106-107. Cit. in Sachin Sen, The birth of Pakistan, Calcutta, 1955, p.146. La missione era composta da Sir Stafford Cripps, Lord Pethick Lawrence e A.V. Alexander. Maktubat-i Sir Sayyid, edited by Shaikh Muhammad Ismail Panipati, Lahore, Majlis-i Taraqqi-i Adab, 1959, p.312. Cfr. il Bang-i Dara – Il Richiamo della Carovana, Traduzione dall’Urdu con Introduzione e Note a cura di Vito Salierno, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2010. Il lavoro più ampio ed esauriente sugli studi di Iqbal in Europa è quello di Sa’id Akhtar Durrani in urdu, Iqbal Iurop main [Iqbal in Europa], pubblicato dall’Iqbal Akademi-i Pakistan nel 1985. Cfr. in particolare i capitoli 1-2, “Sha’ir-i Mashriq ki tarikh-i paida’ish ka masa’il” (Problemi sulla data di nascita del poeta dell’Oriente), pp.1-7 e “Chand naye zaviye” (Alcuni nuovi punti di vista), pp.8- 16. La lirica apre il primo volume di poesie in urdu, il Bang-i Dara [Il richiamo della carovana], pubblicato nel 1924. Vito Salierno, Antologia della poesia urdu, Milano, Ceschina, 1963. The Secrets of the Self, translated from the original Persian with introduction and notes by Reynold A. Nicholson, London, Macmillan, 1920. Revised Edition: Lahore, Shaikh Muhammad Ashraf, 1940. The Mysteries of Selflessness, translated with introduction and notes by Arthur J. Arberry, London, John Murray, 1953. Si tratta di Javed (nato il 5 ottobre 1924), figlio della seconda moglie Sardar Begam (c.1892-1935) che Iqbal sposò nel 1910. Il Dr. Javed Iqbal, Giudice della Suprema Corte del Pakistan, è attualmente Vice-Presidente dell’Iqbal Academy of Pakistan, Lahore. Il Poema Celeste, a cura di Alessandro Bausani, Bari, Leonardo da Vinci editrice, 1965. La prima traduzione apparve in un’edizione a tiratura limitata presso l’Is.M.E.O. di Roma. Quella del 1965, che ha dato il titolo all’intero volume antologico, è una riedizione riveduta e corretta. Alessandro Bausani (a cura), Poesie, Parma, Guanda, 1957, p.43. Il poema celeste, ediz. 1965, già cit., pp.216-218. Pubblicato postumo dal figlio Javed, Lahore, Sh. M. Ashraf, 1960; la prima conferenza è “Knowledge and religious experience”, pp.18-21. Alessandro Bausani, Le letterature del Pakistan e dell’Afghanistan, Milano, Sansoni-Accademia, ediz. agg., 1968, p.39. Bal-i Jibril, in Kulliyat-i Iqbal. Urdu, Iqbal Academy Pakistan, Lahore, National Book Foundation, Islamabad, 1990, p.86. Versione italiana più poetica rispetto a quella inserita nel testo Vito Salierno, “Protesta e Risposta alla Protesta” di Muhammad Iqbal. Traduzione dall’urdu con introduzione e note, in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale”, Napoli, vol.58, 1998, pp.229-254. Bal-i Jibril, ghazal 14, pp.47-48 (Tu ae maula-i Yathrib! Ap meri chara sazi kar/Meri danish hai afrangi mera iman hai zunnari). Cfr. A. Bausani, Il Poema Celeste, op. cit., pp.274-275. Stray Reflections. The Private Notebook of Muhammad Iqbal. Also includes: ‘Stray Thoughts’. Edited with Afterword by Javed Iqbal. Revised and annotated by Khurram Ali Shafique. Appendix: ‘A Rare Writing of Iqbal’ by Afzal Haq Qarshi, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2006, 3rd Edition. Letters of Iqbal, compiled & edited by Bashir Ahmad Dar, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2005, 2nd Edition, pp.21-22. Ibidem, pp.23-24. Kulliyat-i Iqbal. Urdu. Bang-i Dara, pp.187-188. Vedi la traduzione, poesia n.92. Alamgir Aurangzeb (regnò 1658-1707), l’ultimo grande imperatore panindiano della stirpe dei Moghul, estintasi ufficialmente nel 1857-58 con il Mutiny. Morì nell’accampamento di Ahmadnagar, nel Deccan, all’età di 88 anni, mentre l’impero crollava nel caos e nella dissoluzione. Iqbal scrisse la poesia su Aurangzeb, non in urdu, ma in persiano, il masnavi Asrar-i Khudi, in cui spiegava la filosofia e il credo della nazione musulmana (vedi nota 23). In Stray Reflections, già cit., pp.47-48, il poeta spiega il fallimento dell’imperatore e scrive una significativa frase in corsivo: Conquest does not necessarily mean unity. Letters of Iqbal, op. cit., pp.31-34. Da Armughan-i Hijaz (Il dono del Hijaz), in persiano, Lahore, 1938. Vedi Il Richiamo della Carovana, op. cit., n.43, pp.95-96. Zafar Ishaq Ansari, Iqbal and Nationalism, in “Iqbal Review”, Karachi, The Iqbal Academy, April 1961, p.66. Vedi Il Richiamo della Carovana, op. cit, n.16, p.70. Ibidem, n.74, pp.120-121. Ibidem, n.144.6, pp.187-188. Muhammad Iqbal, Speeches and Statements of Iqbal, op. cit., p.224. Muhammad Iqbal, The Reconstruction of Religious Thought in Islam, edited & annotated by M. Saeed Sheikh, Lahore, Institute of Islamic Culture, 2006, p.126 [conferenza dedicata al “Principle of movement in the structure of Islam”]. Ibidem, p.112 [conferenza dedicata allo “Spirit of Muslim culture”]. Per un’analisi più approfondita, cfr. Kavi Ghulam Mustafa, Iqbal on the concept of ideal State, in “Iqbal Review”, Karachi, Iqbal Academy, April 1962, pp.17-24. Vedi Il Richiamo della Carovana, op. cit., n.28, pp.80-81. Vedi nota 47, p.6 [conferenza dedicata a “Knowledge and Religious Experience”. Vedi Il Richiamo della Carovana, op. cit., n.147.20, p.199 e n.147.27, p.200. Da L’ala di Gabriele (Bal-i Jibril), n.136. K. A. Shafique, Iqbal. An Illustrated Biography, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2005, p.157 [Notes of lecture delivered in Roma and Egypt, from the original in Iqbal’s own hand]. Vedi nota 47, p.6. Vito Salierno, Due poesie di Iqbal, Karachi, Il Gelsomino, 1964. Vedi anche Il richiamo della carovana, op. cit., pp.37-38. Pietro Quaroni, Un poeta difficile, in “Corriere della Sera”, Milano, 11 febbraio 1956. Ristampato in Il mondo di un ambasciatore, Milano, Ferro edizioni, 1965, pp.106-112. Pubblicato dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, e seguito nel 1972 da Nuove ricerche sul Libro della Scala e la conoscenza dell’Islam in occidente. Vedi nota 51. Pubblicata in “Modern Language Review”, London, October 1919. Maria Nallino, Recente eco indo-persiana della “Divina Commedia”: Muhammad Iqbal, in “Oriente Moderno”, Roma, XII, 1932, pp.610-622. A. Bausani, Il Poema Celeste, op. cit. Ghulam Hussain Zulfiqar, Development of Iqbal’s Mind & Thought, Lahore, Bazm-i Iqbal, 1998, pp.275-276. Ibidem, p.277. Bal-i Jibril L’Ala di Gabriele Bhartrihari, poeta hindu della metà del VII secolo, autore di tre Shataka (Centurie), sentenze sull’amore, sulla buona condotta e sulla rinunzia, in sanscrito; in particolare, le centurie sull’amore sono ricche di un profondo senso psicologico. Nel Javed-namah, nell’al di là dei cieli, c’è un’interessante conversazione tra Zindarud, ossia Iqbal, e questo poeta. Cfr. Il Poema Celeste, op. cit., pp.156-158. Nell’originale harim-i dhat, letteralmente i “recinti dell’Essere Assoluto”, ossia “presso il trono”. Nell’originale: al-Aman. Le vergini celesti, le spose purissime del Corano, II, 25; III, 15; IV, 57; XXXVII, 48-49; XXXVIII, 52; XLIV, 54; LII, 20; LV, 56, 58, 70, 72; LVI, 22; LXXVIII, 33. Inutile dire che si tratta di un simbolo; nessun musulmano colto moderno interpreta materialmente i passi del Corano relativi al paradiso. Il santuario della Mecca. Località del Kathiawar, in India, famosa per il tempio hindu distrutto da Mahmud di Ghazna nel 1026. È questo il primo di cinque ghazal o pseudoghazal (v. introduzione) ispirati dall’Amore Divino: il poeta è consapevole di esistere solo in funzione di Dio. Il ghazal è una composizione poetica tipicamente persiana, di non molti versi, di solito una dozzina, monorime. I primi due emistichi rimano assieme; nell’ultimo verso il poeta include di solito il suo pseudonimo poetico (takhallus). L’argomento del ghazal è erotico o mistico o misto di ambedue i generi: oltre che nella letteratura persiana, la forma del ghazal è in gran voga nelle letterature turca, urdu e pashto. In tutta l’opera ci sono quarantun quartine (ruba’i s. ruba’yat pl.) non numerate; la nostra numerazione è solo indicativa. Da un punto di vista metrico il ruba’i (dalla radice araba r-b-’, cioè “quattro”) è una breve composizione di quattro misra’, due versi che rimano a-a-b-a e talvolta a-a-a-a, usata per rendere in forma poetica un pensiero, un’idea, una considerazione. Nell’originale la-makan, il “senza spazio” o “non-spazio”, ossia il mondo metafisico, l’opposto di makan, “spazio”, ossia il mondo terreno. L’intero ghazal è un’esposizione del Corano attraverso il mezzo poetico. Cfr. Mustansir Mir, Tulip in the Desert, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2009, pp.12-13. Il Profeta. Molti sono i passi coranici nei quali si dice che nel giorno del Giudizio ad ognuno sarà presentato il registro delle sue opere. Nell’originale haram, il muro che circonda la Ka’ba. Appellativo di ‘Ali, la tigre di Dio. ‘Ali fu il primo maschio ad accettare l’Islam: stretto compagno del Profeta, fu il quarto califfo. Vedi nota 68. Il mondo ultraterreno. Nell’originale saqi: nell’interpretazione mistica il coppiere è il maestro spirituale che versa il vino della conoscenza intuitiva delle realtà divine. Jalal ad-din Rumi (1207-1273), autore di un Divan (Canzoniere) e di un mathnavi in sei libri. Iqbal considerò Rumi la sua guida spirituale: nel Javed- namah il mistico spiega al poeta il significato simbolico dell’ascensione (mir’aj) del Profeta ai cieli. Si veda, qui, in seguito, anche il dialogo n.144, “Il maestro e il discepolo”; e il sestetto Rumi nello Zarb-i Kalim (La verga di Mosè), la terza opera poetica di Iqbal in urdu. Per una scelta antologica di voci enciclopediche, note biografiche e articoli vari, vedi 800th Birth Anniversary of Rumi (2007 A.D.) – Rumi in the light of Eastern and Western Scholarship, edited by M. Ikram Chaghatai, Lahore, Sang-e-Meel Publications, 2004. Re di Persia (VI-VII sec. d.C.), che Iqbal considera un oppressore dei deboli, un potente che attacca i deboli. Nell’interpretazione mistica la taverna è il tempio o santuario. Sinonimo di “poesia”. Si tratta di sprezzo verso gli elementi più ignoranti e ipocriti. In mancanza d’acqua l’abluzione musulmana può farsi con sabbia o terra. Mistico musulmano, detto sufi dal vocabolo suf = lana, poiché gli asceti vestivano un rozzo saio di pelo di cammello. Vedi nota 82. Per Rumi, vedi nota 81. Fakr ad-din Razi (1149-1209), teologo e filosofo, fu autore di un vasto commento al Corano, il Mufatih al-Ghaib in sei libri, di un’enciclopedia delle scienze e di un manuale di metafisica. Nell’originale ‘ajami significa “persiano”, ma il termine è spesso usato per indicare “straniero”. Persia e Arabia sono culture autoctone per i musulmani di qualunque nazione, in particolare al tempo di Iqbal quando quasi tutti i paesi islamici non erano indipendenti. L’haram è il recinto sacro della Mecca; qui metaforicamente indica la perdita della fede. Secondo Alessandro Bausani (Il Poema Celeste, Bari, Leonardo da Vinci editrice, 1965, p.281) è questo uno dei migliori ghazal di Iqbal. L’anelito a un continuo “oltre” è qui espresso in maniera molto originale. Il tentativo di esprimere l’inesprimibile dinamismo assoluto sembra qui spezzare persino gli strumenti usuali della metafora classica per cadere in un quasi moderno ermetismo. Qui, il segnale del viaggio ricorda la prima opera poetica di Iqbal in urdu, il Bang-i Dara, “Il richiamo della carovana” a cura di Vito Salierno, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2010. L’Avesta, il libro religioso dei Parsi ed il suo commentario, lo Zand. Monte della catena dell’Elburs, in Iran, la cui cima è alta 5.604 metri. Si narra che il tiranno Nimrod abbia fatto gettare su una pira in fiamme Abramo con l’accusa di idolatria perché predicava la fede in un solo Dio, ma che per miracolo il fuoco si fosse trasformato in un giardino in fiore. Nell’originale bandah mu’min significa “lo schiavo fedele a Dio, un musulmano ortodosso, un vero credente”. Per Iqbal un mu’min è simile ad uno specchio in cui si riflettono gli attributi di Dio, è un microcosmo in cui l’Assoluto diventa consapevole di sé in tutte le sue componenti. Nell’originale ispand, termine persiano per indicare il seme di piante selvatiche o di una specie di seme di mostarda, che si sgretola nel fuoco: questi semi vengono di solito bruciati per scacciare gli spiriti maligni. Muhammad Nadir Shah soffocò nel 1929 la guerra civile in Afghanistan divenendo re: fu assassinato da un fanatico l’8 novembre 1933. Pochi giorni prima, dal 20 ottobre al 3 novembre, Muhammad Iqbal era stato invitato in Afghanistan dallo shah assieme a Sir Ross Mas’ud e Sayyid Suleiman Nadvi: lo scopo era quello di consigliare Muhammad Nadir sulle riforme del sistema dell’istruzione. Dal punto di vista letterario il soggiorno afghano produsse il poemetto in persiano Musafir (Il viaggiatore), un insieme di riflessioni sulla storia afghana. Da notare che la numerazione dei ghazal ricomincia di nuovo. L’unica spiegazione plausibile è che si tratta di una nuova sezione: mentre il destinatario della sezione precedente è Dio, nella seconda è l’umanità. Cfr. Iqbal Collected Poetical Works (English Translation), edited by Muhammad Suheyl Umar, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, p.255. Sana’i, poeta vissuto verso il 1100 alla corte dei Ghaznevidi, si dedicò ad una vita religiosa divenendo un importante sufi. Ricordiamo che alla corte di Mahmud di Ghazna visse anche Firdusi (940 ca.-1020), l’autore dello Shah-nama (Il Libro dei Re). La qasida è un componimento laudatorio o panegirico in onore di mecenati, re, principi e illustri personaggi. In questo genere eccelse Zauq, il poeta di corte dell’ultimo imperatore moghul Bahadur Shah Zafar. Farid ad-din ‘Attar (1136-1230), autore di un Divan (canzoniere), quattro mathnavi e una memoria biografica dei santi, Tazkerato’l Ouliya. Questo verso è di Jalal ad-din Rumi, già cit. Nell’originale janun significa sia pazzia amorosa che religiosa, nella duplice accezione di amore terreno e amore divino. Si tratta del khudi, la Realtà Ultima o l’Io Assoluto, il leit-motiv della filosofia iqbaliana. Iqbal ha spiegato questa sua teoria nell’opera in persiano, Asrar-i Khudi (I segreti dell’Io), pubblicata nel 1915. Cfr. The Secrets of the Self, translated by Reynold A. Nicholson, London, Macmillan, 1920. Per una spiegazione riassuntiva, vedi Mustansir Mir, Iqbal, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2008, pp.31-39; per il testo italiano di questa biografia, vedi la traduzione a cura di Vito Salierno, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2010. Nell’originale tohid, ossia monoteismo o Unità di Dio. Nell’originale minbar, ossia il pulpito, e quindi per estensione anche chi predica la fede. Abu ‘Abdallah al-Husain ibn Mansur al-Hallaj (858 ca.-922), tra i più noti martiri nella storia dell’Islam, abbandonato il sufismo, proclamò: “Io sono la Verità” (Ana’l-Haqq). Imprigionato a Baghdad per otto anni, fu giudicato eretico per il suo insegnamento e condannato a morte: fu squartato e bruciato il 26 marzo 922. Il modo della sua morte diede origine a leggende della sua sostituzione come nel caso di Gesù Cristo. Nell’originale tan asman ‘arshion significa letteralmente “i seguaci dei troni del Cielo”. Nell’originale tavaf, ossia il circuito della Mecca, il girare attorno al santuario o all’oggetto da venerare. È la circumambulatio latina o la pradakshina sanscrita, comune a tutte le religioni. Vedi nota 83. Vedi nota 80. Nell’originale il Turan, per indicare “tutta la terra”. Vedi nota 91. Si tratta di personaggi della cerchia del Profeta. Israfil è l’angelo che suonerà la tromba nel giorno della resurrezione. Il suo nome non compare né nel Corano né nelle Tradizioni. Si tratta di un verso di Hakim Sana’i (Nota di Iqbal): vedi nota 99. L’inserimento di versi altrui, detto tazmin, era un’antica usanza ritornata in auge nel periodo del risveglio dell’Islam indiano. Nell’originale yad-i baiza, la mano bianca di Mosè: è una reminiscenza biblica inclusa nel Corano. Mosè dimostrò al Faraone di essere l’inviato di Dio, mandato a liberare gli Israeliti dalla schiavitù, facendo diventare la propria mano di color bianco: “Premiti ora la mano sul fianco, ne uscirà bianca, ma senza male alcuno: ecco un altro Segno” (Corano, XX, 22); inoltre Corano, XXVII, 12; XXVIII, 32. Re dei Parti (110 ca - 130 d.C.); Cesare e Cosroe stanno ad indicare re assoluti in generale. Questo verso, leggermente modificato, è di Mirza Sa’ib (Nota di Iqbal). Mirza Sa’ib (1601-1675), poeta persiano nato ad Isfahan, ma vissuto a Tabriz; in viaggio per l’India, si fermò a Kabul alla corte del governatore Zafar Khan Ahsan, che seguì prima nel Deccan, poi nel Kashmir. Considerato il più grande poeta persiano del Seicento, scrisse circa trecentomila versi tra qaside e ghazal: il suo poema più noto è un Qandahar-namah (Il libro o viaggio a Qandahar) in 130.000 versi. Cfr. Alessandro Bausani, La letteratura neopersiana, Milano, Sansoni-Accademia, 1968, pp.297-302. Letteralmente Qur’an e Furqan, che sono sinonimi; Ya-sin e Ta-ha che sono i titoli arabi delle sure XXXVI e XX. Vedi nota 99. Vedi nota 87. Gengis Khan (1165-1227) e Tamerlano (1336-1405) sono considerati qui come conquistatori materiali. L’intero ghazal vuole sottolineare la nccessità per i Musulmani di una conquista del mondo sia spirituale che materiale. ‘Iraq e Persia stanno qui ad indicare l’intero mondo dell’Islam. Nell’originale janun. Vedi nota 102. Nell’originale taqdir, ossia destino. Letteralmente significa “misurare”; vedi Corano, sura XCVII, e altri versetti coranici. Qarun, il capo della ribellione contro Mosè, citato tre volte nel Corano, XXVIII, 76-82; XXIX, 39; XL, 24; nelle letterature musulmane è il prototipo del ricco ingiusto. Letteralmente mi’raj-i Mustafa, l’ascensione del Profeta, qui indicato con il nome di Mustafa, “il prescelto “, uno dei suoi attributi. Vedi, il Corano, XVII, detta per l’appunto, “la sura del viaggio notturno” e in particolare i versetti 61-65. I teologi musulmani discutono se la mistica ascensione e il viaggio a Gerusalemme devono essere considerati come compiuti in corpo o in spirito; ma tutti i grandi mistici islamici hanno sempre interpretato il fatto come una sublime esperienza spirituale. Per ulteriori notizie, cfr. Enrico Cerulli, Il Libro della Scala e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1949, e il volume aggiuntivo Nuove ricerche sul Libro della Scala e la conoscenza dell’Islam in Occidente, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1972. Nell’originale, kun fi-kun, termini persiani traducibili con “sii” e “fu”; con riferimento al Corano, VI, 72-73: “Compite la preghiera e temete Iddio: Egli è colui davanti al quale tutti sarete raccolti, ed Egli è Colui che ha creato il cielo e la terra con verità d’intento e il giorno in cui dice a una cosa, ‘Sii!’ ed essa è, la Sua parola è verità. A Lui appartiene il Regno, il dì che squillerà la tromba. Egli è Colui che conosce l’Invisibile e il Visibile, il Saggio che di tutto ha contezza”. Vedi nota 81. Letteralmente adhan, il richiamo alla preghiera. Nell’originale kisht-i vujud, letteralmente “i campi dell’Essere”. Vedi nota 68. Nell’originale imam, colui che guida la preghiera. La parola raj, da tempo entrata in uso nell’Oxford Dictionary, è sinonimo di potere assoluto; ai tempi di Iqbal si parlava del “British raj in India” con disprezzo. Lo sceicco o il brahmano erano considerati i capi intolleranti delle due religioni rivali in India, l’Islam e l’Hinduismo. Iqbal fu invitato a Kabul nel 1933 come consigliere culturale del governo afghano. Vedi nota 98. Nell’originale hadith, ossia gli atti e i detti del Profeta, una delle fonti di cognizione della sunnah. Nell’originale razzaq, colui che elargisce, uno dei 99 nomi di Allah. Nell’originale haram, sinonimo di Ka’ba, e in generale la moschea. Nell’originale qalandar, termine che Iqbal adopera con altri sinonimi, quali mu’min, darvesh, faqir e simili. Vedi nota 89. Nell’originale ro ro ke, forma idiomatica derivante dal verbo rona, piangere. Nel Javed-namah (Il Poema Celeste), v.614, Cielo della luna, nei nove detti del saggio indiano (VI) aveva scritto: “Un miscredente dall’animo desto, che prega avanti a un idolo, è meglio di un religioso addormentato nel Tempio!”. Cfr. Il Poema Celeste, a cura di Alessandro Bausani, Bari, Leonardo da Vinci editrice, 1965, p.61. Vedi nota 140. Vedi nota 140. Nel gennaio 1933, di ritorno dalla Terza e Ultima Conferenza della Tavola Rotonda svoltasi a Londra nel novembre precedente, Iqbal si fermò in Spagna, a Còrdoba, Siviglia, Granada, Madrid, dove il 24 gennaio tenne all’Università una conferenza su “Spain and the Intellectual World of Islam”. Si tratta dell’atto di prostrarsi nella preghiera musulmana: nell’originale sijdah, ossia l’inchinarsi sino a toccare il terreno con la fronte. Due parti della moschea, il pulpito (minbar) e la nicchia (mihrab). Nell’originale adhan o azan, il richiamo alla preghiera. Nell’originale i due califfi ‘Omar e ‘Ali sono indicati con i loro appellativi di faruqi “colui che distingue il bene dal male” e di karrari “colui che è saldo e forte”. Verso di difficile traduzione, qui in versione letterale. Il poeta vuole dire che se un uomo ha un cuore vigile può tramutare in oro qualunque cosa priva di valore. Nell’originale maula-i Yathrib “signore di Yathrib” (Medina). Nell’originale zunnari; era detta zunnar la cintura di riconoscimento indossata in Persia dai cristiani e dagli ebrei, e in India dai brahmani. Vedi nota 114. Nell’originale huzur che significa “presenza (divina), eccellenza, altezza” e simili. Nell’originale Zabur-i ‘Ajam, l’opera in persiano che Iqbal pubblicò nel 1927. Il poeta stesso in una lettera aveva riassunto il libro in quattro parti: le prime due trattano dell’uomo in conversazione con Dio e dell’uomo che commenta il mondo umano; la terza offre risposte ad una serie di domande filosofiche, e la quarta discute dell’impatto della schiavitù sulla religione e sulla cultura di una nazione. Vedi nota 81. . Nell’originale kalim, il soprannome di Mosè, l’interlocutore di Dio; nella forma completa di kalim Allah diventa “colui che parla con Dio”. Vedi nota precedente. Nell’originale in arabo La Takhf, reminiscenza coranica, XX, 68: “Ma noi gli dicemmo: Non temere; tu sarai il vincitore!”; qui è Allah che parla al cuore di Mosè. Nell’originale Medina o Najaf, le due città sante per i sunniti e per gli sciiti: Medina in Arabia dove è sepolto il Profeta e Najaf in ‘Iraq dove è sepolto il quarto califfo ‘Ali. Si tratta di un richiamo al mitico re sassanide Cosroe II Parvez di Persia e alla storia del suo contrastato amore per la bella armena Shirin, amata infelicemente anche dallo spaccapietre Farhad. Secondo il romanzo Khosrov o Shirin, scritto da Nizami di Ganj (1141-1204), Cosroe e Shirin si erano innamorati contemplando i reciproci ritratti; ma anche il tagliapietre Farhad è innamorato di Shirin, che, diventata regina di Armenia, in un momento di malumori tra lei e il re di Persia, intreccia una relazione con Farhad. Per punire il rivale, Cosroe gli aveva ordinato di costruire un tunnel attraverso il monte Bisutun e di lasciare Shirin; non riuscendo nel suo intento, il re dà a Farhad la falsa notizia della morte di Shirin e lo spaccapietre per il dolore si suicida gettandosi dall’alto del monte. Per ulteriori notizie, cfr. Alessandro Bausani, La letteratura neopersiana, Milano, Sansoni- Accademia, 1968, pp.396-439; e Nezami di Ganje, Le sette principesse, a cura di Alessandro Bausani, Bari, Leonardo da Vinci editrice, 1967. Si tratta di una metafora di difficile traduzione: letteralmente nell’originale asudghi-i fitrak significa “la sicurezza delle cinghie della sella”. Si riferisce qui a Tamerlano (Timur-i Lenk 1336-1405) e ai Timuridi che diedero vita all’impero dei Moghul in India (1526-1857). Vedi nota 68. Nell’originale hadith-i kalim o Tur, ossia “i racconti tramandati di Mosè del monte Sinai”. Vedi nota 68. Nell’originale La Ilaha Illa, ossia la prima parte della shahada, la professione di fede musulmana. Si tratta di un riferimento storico; gli Inglesi – è il pensiero di Iqbal – hanno innalzato al potere persone indegne, quali l’allora primo ministro del Panjab, Sir Sikandar Hayat Khan. Nell’originale qalandari, ossia il modo di vivere modesto e povero tipico di un qalandar; vedi nota 140. Si tratta di una metafora sulla base di due termini relativi ad un campo di canna da zucchero (naistan) e alla stoppia (khar o khas): cioè la ragione serve per le cose piccole, il cuore per le cose grandi. Nell’originale la parola fiume è indicata dal Ravi, dal Nilo e dall’Eufrate. Nell’originale ‘Ajam, ossia Persia, che qui come in altri versi di Iqbal significa “straniero, estraneo”. Vedi nota 73. Vedi nota 73. Nell’originale khakdan, luogo di polvere, la terra. Per Tamerlano vedi nota 122. Nadir Shah (1688-1747) salì al trono di Persia nel 1736, combatté contro i Moghul conquistando nel 1739 Delhi da dove portò via il famoso “trono del pavone” di Shahjahan e il non meno celebre diamante “koh-i nur” (montagna di luce); quest’ultimo, preda di guerra inglese, è ora tra i gioielli della corona a Londra. Nell’originale qalandar; vedi nota 140. Letteralmente ra’i è il seme della mostarda. Nell’originale La Ilaha; vedi nota 168. Il famoso pensatore-filosofo tedesco Nietzsche, che non fu in grado di interpretare correttamente le sue esperienze interiori e fu fuorviato dal suo pensiero filosofico (Nota di Iqbal). Si veda ne Il Poema Celeste, op. cit., pp.142- 144, l’incontro tra Iqbal e il filosofo e nello Zarb-i Kalim la poesia Nietzsche. Nell’originale maqam-i kibriya, ossia il luogo dell’Altissimo. Per ‘Attar, Rumi e Razi, vedi note 101, 81, 89. Ghazzali, nato a Tus nel 1058, visse alla corte del selgiuchide Nizam ul-Mulk sino al 1091, quando fu chiamato ad insegnare a Baghdad. Filosofo scettico, diventò in seguito mistico e derviscio: nel 1105 accettò per breve tempo una cattedra a Nishapur. Ritiratosi in un monastero sufi, nella sua città natale, vi morì il 19 dicembre 1111. Ricordiamo qui il suo Tahafut al-falasifa (L’incoerenza dei filosofi). Nell’originale mihrab-i masjid, ossia la nicchia che nella moschea indica la qibla, la direzione della preghiera. Vedi nota 68. Si riferisce qui alla verga di Mosè, che è il titolo della terza opera poetica in urdu, lo Zarb-i Kalim (La verga di Mosè), pubblicato nel 1937. Letteralmente mullah, zahid, hakim, cioè la guida religiosa del primo gradino, l’eremita, il medico. Ritorna qui il motivo dell’aquila o del falco (shahin,‘uqab, baz, shahbaz), per i quali Iqbal usa vari nomi a seconda del metro adoperato. Il poeta esorta l’aquila a scoprire nuovi mondi volando sempre più in alto. Cfr. M. Mir, op. cit., pp.110- 111. Letteralmente ‘alam-i rang o bu, ossia il mondo dei colori e degli odori, il mondo terreno. Nell’originale in arabo arini, “Mostrati a me”, la preghiera di Mosè a Dio sul monte Sinai. Corano, VII, 143: “E quando Mosè venne al Nostro convegno e il suo Signore ebbe parlato con lui, disse Mosè: ’O Signore! Mostrati a me, che io possa rimirarTi!’ Rispose: ‘Non mi vedrai. Ma guarda il monte, e se esso rimarrà fermo al suo posto, ebbene, tu mi vedrai!’ Ma quando Iddio si manifestò al monte lo ridusse in polvere e Mosè cadde fulminato. E quando ritornò in sé disse:’Sia gloria a Te! Io a Te mi converto e sono il primo dei credenti!”. Nell’originale zikr significa, “ricordo, menzione”; tra i sufi è la lode di Allah fatta mediante la litania e la recitazione modulata quale ad esempio il rosario dei 99 nomi (al-asma’ al-husna). Nella tecnica dei sufi lo zikr è la lode a Dio fatta per mezzo di determinate formule durante le riunioni dei dervisci. Lo zikr varia secondo il grado del sufi: per l’aspirante (murid) consiste nel ripetere la prima parte della shahada (La Ilaha illa’llah); per il viandante, la parola Allah; per il provetto (‘arif), il nome Huwa, Hu, cioè “Lui”. Ciascuna congregazione (tariqa) ha zikr appropriati alle diverse occasioni con formule e procedimenti particolari. La danza dei dervisci, con o senza accompagnamento musicale, ha inizio al comando dello shaikh e assume un ritmo sempre più crescente fino alle vertigini con grida e movimenti della testa. Vedi nota 114. Secondo il Corano e la tradizione islamica Abramo, accusato di idolatria perché predicava la fede in un solo Dio, fu fatto gettare nel fuoco da Nimrod, ma fu miracolosamente salvato per intervento divino – il fuoco si trasformò in un giardino fiorito. Husain, nipote del Profeta, fu ucciso a Karbalah il 10 ottobre 680 (10 del mese di muharram 61 dell’Égira) ed è considerato un martire per la fede (shahid); secondo i musulmani Ismaele, e non Isacco, doveva essere sacrificato a Dio dal padre Abramo. Il senso è che il contatto con il Sacro è semplice e terribile, comincia e finisce con il martirio. ‘Ali sradicò il portale di Khaibar, roccaforte di ebrei vicino Medina, conquistata dal Profeta nel 628. Nell’originale khas o khash significa “immondizie”, ossia cose insignificanti. Nell’originale in arabo maktah Laulak. La frase completa, da un Hadith-i Qudsi, suona: “Se non avessi inteso creare te (il Profeta), non avrei creato il mondo”. Tughril (m. 1063) e Sanjar (m. 1157), sovrani della dinastia turca dei Selgiuchidi, considerati da Iqbal costruttori di nazioni. Nel Javed-namah Iqbal vede gli attributi divini di “Potenza Maestosa” (jalal) e di “Gentile Bellezza” (jamal) personificati, nella storia, nelle due serie di capi gloriosi della comunità. Cfr. Il Poema Celeste, op. cit., p.176, il capitolo “Alla presenza di Dio”. Vedi nota 140. Per Rumi, vedi nota 81. Abu Nasr al-Farabi (Turkestan 870 ca-Damasco 950), visse a Baghdad per quarant’anni e ad Aleppo; fecondo poligrafo e studioso della logica aristotelica, è considerato il più grande filosofo arabo prima di Avicenna. Autore di oltre venti trattati, tra i quali Risala fi ara’ ahl al-madina al-fadila (Le opinioni dei cittadini della città modello), che si ispira alla Repubblica di Platone, e il Kitab al-huruf (Il libro delle lettere) sulla teoria del linguaggio; inoltre il Kitab al-musiqi al-kabir (Il grande libro della musica), che contiene la sua teoria matematica della musica e degli strumenti musicali. Vedi nota 140. Khalil è l’amico di Dio, cioè Abramo. Nell’originale, in arabo, La Allah. Si tratta di uno dei ghazal più densi di significato. Il poeta sembra profetizzare l’avvento di una nuova società senza musulmani occidentalizzati, teologi di vedute ristrette, filosofi inconcludenti, plutocrati, individui irresoluti o passivi, di una società basata sull’azione e sulla cooperazione. Nell’originale faqih è il teologo che sta alla lettera e non al significato della legge. I rishi sono i saggi dell’antica India; qui Iqbal ha in mente gli sforzi del Mahatma Gandhi per depurare l’hinduismo da tutte le pratiche e gli abusi quali quelli nei confronti degli intoccabili e delle categorie ai margini della società. Nell’originale Haqq “giustizia”, uno degli appellativi di Dio. Vedi nota 81. Vedi nota 89. La leggendaria coppa del re Jamshid in cui si poteva osservare ciò che si desiderava, quindi anche i segreti del mondo. Il motivo della “coppa miracolosa” è ricorrente in Iqbal; cfr. Il Poema Celeste, cap. “Il Cielo di Giove, la melodia di Hallaj” (A. Bausani, op. cit., p.120), e I Salmi di Persia, prima parte, IV, 47 (A. Bausani, op. cit., p.246). Azar, padre di Abramo, scultore di statue idolatrate nei templi di Ur in Caldea. Nell’originale Kar-i Khalil, gli amici di Khalil, soprannome di Dio. Nell’originale Khudi: vedi nota 103. Husain o Husein, figlio secondogenito di ‘Ali e Fatima, nipote del Profeta. Alla morte del fratello Hasan fu convinto dai suoi seguaci e dal cugino Muslim ibn ‘Aqil a mettersi alla testa degli ‘Alidi, rifiutando di riconoscere la successione al califfato di Yazid, figlio di Mu‘awiyya. Partito dalla Mecca, Husain si mise in viaggio per Kufah, ma prima di giungere apprese dell’uccisione del cugino da parte del governatore dell’Iraq. Fermatosi a Karbala, fu circondato dalle truppe governative che avevano tagliato l’accesso all’acqua; abbandonato dai promessi rinforzi, tormentato dalla sete, Husain con gran parte dei suoi morì il 10 di muharram del 61 H (10 ottobre 680). Per gli Sciiti è il terzo dei dodici imam: fu detto sayyid al-shuhada’ (il signore dei martiri). Vedi nota 198. Noti mistici. Noti condottieri della storia musulmana dell’India: Qutb ud-din Aibak, il capostipide dei Mamelucchi, regnò a Delhi dal 1206 al 1210; i Ghoridi, una dinastia afghana di oscure origini, successa ai Ghaznavidi nel 1187, sorse e si estinse con Muhammad Ghori (1187-1206), che nel 1191-93 sconfisse i Rajput nella Piana di Tarain, a nord di Delhi, dando così inizio all’impero musulmano in India. Amir-i Khusrav (1253-1325) di Delhi, il più famoso poeta in lingua persiana, musico e cantore, molto prolifico, autore di numerosi mathnavi, tra i quali cinque poemi romanzeschi; i suoi rag, motivi di musica classica indiana, si cantano tuttora in Pakistan e in India. Mas’ud Sa’ad Salman, famoso poeta dell’era ghaznevide, nato probabilmente a Lahore (Nota di Iqbal). Il bulbul, l’usignuolo, il vecchio motivo stereotipato e convenzionale della poesia in urdu. Nell’originale faqr, “povertà”, una delle qualità che Iqbal ammirava; ha nella realtà il significato di “indifferenza verso gli ornamenti del potere e della fama”, sinonimo di dervish. Non solo Iqbal predicava la faqr, ma la metteva anche in pratica: da avvocato non accettava più di poche cause per volta, mirando allo scopo di guadagnare quel tanto che gli bastava per un mese o due. Quando Sir Akbar Hydari, primo ministro dello stato di Haiderabad, nel Deccan, gli mandò un assegno di mille rupie, Iqbal, considerandolo un atto di generosità nei suoi confronti, gli restituì l’assegno e scrisse una poesia, menzionando la sua faqr, cioè il suo senso di dignità come motivo del rifiuto di accettare l’offerta. Nell’originale arabo ashhad an la ilaha. Nell’originale Khudi. Nell’originale tavaf; vedi nota 108. Vedi nota 89. Nell’originale sahab-i kashshaf, ossia “il signore del Kashshaf”. Si riferisce qui ad Abu al-Qasim Mahmud al-Zamakhshari (1075-1144), autore di un commentario coranico, denominato al-Kashshaf. Iqbal si riferisce qui ai Turchi occidentalizzati, non più veri musulmani, di Mustafa Kamal Atatürk (1881-1938). Iqbal ebbe una grande stima per Atatürk sino al 1924: cambiò idea dopo l’abolizione del califfato. Il richiamo del muezzin alla preghiera. Nell’originale jamadat, che significa “fossili, minerali, ciò che non cresce”, quindi sterile. Sinonimo di prete ignorante. Nell’originale haram, il recinto della Mecca. Nell’originale makani e la-makani, il mondo terreno e quello metafisico; vedi nota 73. Intossicati dall’amore divino. Nell’originale Khudi. Nell’originale Khalil, l’amico di Dio, soprannome di Abramo. Nell’originale Firang, un termine spesso usato in poesia in senso spregiativo. Letteralmente “un temperamento ghaznevide, un destino da Ayaz”. Si tratta di un riferimento nella storia iniziale dei musulmani nel subcontinente indiano. Il ghaznevide è Mahmud di Ghazna in Afghanistan: salito al trono nel 999, si annesse il Panjab con Lahore e Multan, e distrusse a Somnath i templi hindu. Ayyaz, un suo schiavo favorito, diventò governatore di Lahore. Nell’originale jalvat, visibile, e khalvat, intimo, che è l’origine del visibile, due termini tradizionali complementari. Mistico; vedi nota 87. Nell’originale be-faqiri, la vita di un derviscio, ossia di un devoto. Nell’originale mustafa, il Prescelto, attributo del Profeta. Nell’originale kibriya, il Magnificente, attributo di Dio. Soprannome di ‘Ali; vedi nota 77. Vedi nota 89. La danza della vita. Nell’originale Laulak, parola intraducibile: è l’inizio di una frase che significa “Se non avessi voluto creare Te (il Profeta), non avrei creato il mondo. Vedi nota 197. Non c’è più amore e fede nella preghiera fatta in maniera confusa (le file non allineate dei credenti), senza devozione, con formule ripetute per pratica: i musulmani – questo il senso – non hanno più l’orgoglio di sé stessi. Nell’originale Tughril e Sanjar; vedi nota 198. Vedi nota 210. Nell’originale makan e la-makan; vedi nota 73. Personaggio leggendario, servo o amico di Alessandro. Lavando un pesce morto in una fonte d’acqua, lo vide rivivere: tuffatosi anch’egli nella fonte, ottenne l’immortalità. Iqbal lo ricorda ne Il Poema Celeste (A. Bausani, op. cit., pp.100, 108). Cfr. anche nel Bang-i Dara il poemetto “Khizar la Guida” del 1921 (Il richiamo della carovana, op. cit., pp.183-188, 240); si tratta di un colloquio immaginario tra il poeta e Khizar sui problemi sociali, economici e politici del mondo. Nell’originale Nausherwan, re di Persia noto per la sua giustizia. Campo di battaglia. Nell’originale be-tegh o sinan, ossia “privo di punta e di scimitarra”. Appellativo di ‘Ali che sradicò il portale della fortezza di Khaibar; vedi nota 195. Secondo la tradizione, la fortezza fu conquistata dal Profeta con una facilità inspiegabile con fatti puramente umani: questo evento fu considerato un fatto miracoloso. Abu al-Hasan è l’appellativo del teo logo al-Ash’ari (m. 935), che cercò di superare la dicotomia tra l’interpretazione letterale e quella giuridica del Corano e degli Hadith. Nell’originale khushk-o-tar, secco e bagnato. Nell’originale bandagi, schiavo, uomo legato. Profeta menzionato nel Corano, VII, 84-95; XI, 89; XXVI, 176-191; XXIX, 36-37. Il pellegrinaggio alla Mecca. Si tratta di un hadith, ossia un detto tradizionale del Profeta. Secondo la tradizione islamica, il Mahdi è il “Ben Guidato” che apparirà alla fine del mondo per convertire tutti all’Islam. In una nota, A. Bausani (op. cit., pp.201-202) scrive: “Le discussioni sul Mahdi erano molto vive in India all’epoca di Iqbal, anche a causa del movimento ahmadiyya il cui fondatore (m.1908) si era appunto dichiarato il Mahdi atteso. Iqbal sostiene qui invece che il Mahdi è per lui l’Eroe alla Carlyle, o il Superuomo alla Nietzsche, piuttosto che il fondatore di una nuova religione”. In Stray Reflections, op. cit., p.85, aveva scritto: “Give up waiting for the Mehdi [questa la sua grafia] – the personification of Power. Go and create him”. La grande moschea di Còrdoba (Qartabah) fu costruita da ‘Abd ar-Rahman nel 784-786 e completata da Abu Amir al-Mansur nel 976. Iqbal visitò la Spagna nel gennaio 1933 e nella moschea di Còrdoba, trasformata in cattedrale cattolica dopo la “Reconquista”, ebbe l’autorizzazione a compiervi la preghiera canonica islamica. L’avvenimento produsse su di lui una forte impressione ed ebbe larga eco nel mondo musulmano del tempo. Il soggetto è il “tempo”. Letteralmente le note alte e base del “contingente”, del “possibile”. Il vocabolo urdu ‘ishq significa per Iqbal “amore totale”, ossia passione creativa, scintilla divina, forza che spinge l’individuo a realizzare sé stesso in una lotta con il mondo e con Dio. Nell’originale jigar, letteralmente “fegato”, usato per cuore come sede di un amore più calmo, più affettuoso. Il trono di Dio. La parola sham “sera” è usata anche per indicare la Siria. Non credo sia questo il significato nel presente contesto, anche se alcuni traduttori inglesi l’hanno usata in tal senso. Il richiamo alla preghiera fatto dal muezzin dall’alto del minareto. Nell’originale Kalim, attributo di Mosè, e Khalil, attributo di Abramo, l’amico di Dio (Khalilallah). La professione di fede del musulmano “Non c’è altro Dio che Dio”. Il mondo terreno e il mondo celeste. Corano, LXVIII, 4: “E certo l’indole tua è nobilissima”. Sta per Arabia di cui il Hijaz è una regione. Vedi nota 270. Si tratta dell’Italia fascista di cui Iqbal fu all’inizio un ammiratore; cambiò idea all’epoca della colonizzazione italiana. Letteralmente Badakhshan, regione alle sorgenti del fiume Oxus, famosa per i suoi rubini. Uadi al-Kabir è il noto fiume di Còrdoba che scorre vicino alla moschea (Nota di Iqbal). Dalla corruzione dell’originale arabo è derivata la forma attuale di Guadalquivir. L’europeo. al-Mu’tamid (1048-1095), romantica figura di principe e mecenate, poeta egli stesso, scrisse versi celebri sulla sua vita e sulle sue vicende personali. Spodestato, fu deportato ad Aghmat, nell’Atlante, dove morì prigioniero. L’originale tadbir “strategia” ha molti significati; qui Mu’tamid vuol dire che la sua strategia di difesa non è riuscita ad allontanare da lui il destino, malgrado egli avesse fatto tutto il possibile per evitarlo. Tutta la poesia va vista alla luce di quest’interpretazione. Cfr. M. Mir, op. cit,, p.142. ‘Abd ar-Rahman I (731-788), fondatore dell’emirato ommiade di Spagna, emiro di Còrdoba dal 756 alla morte. “La storia” di al-Maqqari (m.1632), con il titolo originario di “La fragranza ombrosa del ramoscello della terra di Andalus deliziosa” (Nafh attib), fu redatta quando la Spagna musulmana dei primordi non esisteva più. Madinat az-Zahra, la città-palazzo costruita in marmo, fuori Còrdoba, di cui rimangono solo i resti. Il termine originale uadi significa “vallata” ma anche “fiume”; entrambe le interpretazioni sono possibili. Il monte Sinai. Nell’originale mu’min; vedi nota 140. Nella poesia tradizionale è frequente l’accostamento tra il rosso dell’henné usato dalle donne per dipingersi le unghie e il rosso del sangue. Qui il poeta vuol dire che egli è pronto a colorare del suo sangue la Spagna. Tariq fu il primo condottiero arabo a sbarcare sul continente il 30 aprile 711, a Gibilterra cui diede il suo nome “Jebel el-Tariq” = montagna di Tariq; nel giro di pochi anni gran parte della Spagna diventò musulmana. Si dice che dopo lo sbarco Tariq abbia fatto distruggere le navi; alle proteste dei soldati per essersi precluso il ritorno in patria rispose “Tutte le terre sono nostre perché appartengono a Dio” (Har mulk mulk mast ke mulk Khuda’e mast). Ossia il legame mistico tra Dio e i guerrieri musulmani che fanno derivare la loro forza dall’intimità con Dio. Il rosso del tulipano o papavero (lalah) è simbolo di martirio. Il poeta ripete qui il concetto precedente, e cioè che lo scopo della conquista non era il desiderio di dominio, ma la dimostrazione della propria fede. Nell’originale La tazar “Non temere!”, ingiunzione coranica. Da questo singolare dialogo tra Lenin e Dio si rileva l’atteggiamento di Iqbal verso il comunismo, di cui apprezza in buona parte i risultati pratici, ma di cui non approva l’ideologia materialistica. Nel Javed namah, nel capitolo del “Cielo di Mercurio” c’è un passo su “Comunismo e capitalismo”: “È della stirpe di Adamo l’autore del Capitale, quel profeta senza Gabriele. La Verità è infatti implicita nel suo Errore: il suo cuore è credente, il suo cervello è ateo. Gli occidentali hanno perduto i cieli, cercano nel ventre il purissimo spirito! L’anima pura non prende dal corpo forme e profumi, ma il comunismo non si interessa che del corpo. La religione di quel profeta che non riconobbe Dio è basata sull’uguaglianza del ventre, mentre la fratellanza ha il seggio nel cuore; nel cuore è la sua radice, non in acqua e fango! Ed anche il capitalismo consiste nell’ingrassare il corpo, il suo petto privo di luce è vuoto anche di cuore! Come l’ape che pascola sul fiore, esso lascia il petalo e porta via il miele ... ma ci sono e rami e foglie e colore e profumo della rosa, e sulla sua bellezza piange l’usignuolo! Supera l’incantesimo e il colore e il profumo, abbandona la forma e scorgi l’intimo Senso. Seppure è difficile vedere la morte del cuore, non chiamare rosa quello che in realtà è terra! Entrambi hanno anime insofferenti e impazienti, entrambi ignorano Dio e ingannano gli uomini. La vita per l’uno è produzione, per l’altro riscossione di tasse: l’uomo è come un vetro in mezzo a queste due pietre! L’uno porta alla rovina scienza, religione ed arte, l’altro rapisce l’anima al corpo, il pane alla mano. Li veggo ambedue annegati nell’acqua e nel fango, ambedue hanno il corpo luminoso e il cuore oscurato; ma vita significa ardere e costruire nell’azione, gettare nella polvere il seme del cuore!” (A. Bausani, op. cit., pp.80-81). Sulle idee sociali di Iqbal, cfr. Jan Marek, Socialist Ideas in the Poetry of Muhammad Iqbal, in “Studies in Islam”, New Delhi, April-July 1968, pp.167-179. Nel senso che gli scienziati non sono i migliori conoscitori del canto eterno della Natura. Nell’originale roz-i makafat, il giorno della vendetta, il giorno della resa dei conti. Cioè Iqbal stesso. I due termini zauq e shauq, tipici dell’antica mistica musulmana, potrebbero rendersi in italiano con “estasi”. Si riferisce al viaggio in Europa fatto nel 1931: dal 6 al 15 dicembre si fermò in Palestina per partecipare al Congresso Islamico di Gerusalemme. Verso persiano di Sa’di, autore di celebri ghazal e ruba’i. Questi versi sono cioè il mazzo di fiori portato da Iqbal in dono agli amici dai giardini della Palestina. Cfr. Alessandro Bausani, La letteratura neopersiana, Milano, Sansoni-Accademia, 1968, pp.244-253. Località della Palestina. Nell’originale teilasan, la coda del turbante che ricade sulle spalle. Località della Palestina. Vedi nota 237. Vedi nota 214. Celebri battaglie vinte da Muhammad contro i politeisti d’Arabia, menzionate anche nel Corano. È un’autocitazione di un verso che piaceva molto a Iqbal perché, spesso, e in urdu e in persiano, ne ripete il concetto. Cfr. A. Bausani, Il Poema Celeste, op. cit., p.296. Salim I, detto Yavuz, il “Crudele”, sultano ottomano che regnò dal 1512 al 1520. Per Sanjar, vedi nota 198. Famosi mistici e santi musulmani. Vedi nota 133. Si riferisce alle fasi della preghiera musulmana. Attributo del Profeta; vedi nota 127. Zio e feroce nemico del Profeta, ricordato nel Corano, CXI,1-5. Secondo la tradizione, la moglie di Abu Lahab nel suo odio per Muhammad cospargeva di spine la strada per la quale il Profeta doveva passare. Uguale pensiero Iqbal ha espresso in una breve poesia nel Payam-i Mashriq (Il messaggio d’Oriente). Il figlio Javed, nato il 5 ottobre 1924, dalla seconda moglie di Iqbal, Sardar Begam (1892 ca.-1935). Il Dr. Javed, Giudice (in pensione) della Suprema Corte del Pakistan, è attualmente Vice-Presidente dell’Iqbal Academy of Pakistan, Lahore. Vedi nota 103. Poeta persiano del XII secolo, considerato tra i tre più grandi poeti di Persia (gli altri due sono Firdusi e Sa’di). Si tratta di un hadith, ossia un detto tradizionale del Profeta. Si veda ne Il Poema Celeste, op. cit., pp.87-88, nel Cielo di Mercurio, il passo “La terra è possesso di Dio”. Vedi nota 73. Vedi note 77 e 219. Nella tradizione araba o persiana il coppiere era un bel giovane che versava il vino; con il tempo il vino divenne simbolo di verità o ispirazione e il saqi diventò colui che riempiva la coppa spirituale, e quindi sinonimo di guida spirituale o anche Dio stesso. Nella poesia in genere rimane però sempre un’ambiguità intenzionale: questo non avviene in Iqbal. Nell’originale Iram, cioè un favoloso giardino d’Arabia. Montagna nei dintorni della Mecca. Nell’originale tohid, cioè “monoteismo”. Nell’originale zunnar-posh indica la cintura che distingueva gli zoroastriani e in generale tutti i non musulmani, cioè i non credenti. Nell’originale shari’at, “la legge canonica dell’Islam”. Nell’originale khidmat-i haqq, cioè al servizio della giustizia o verità, quindi di Dio. “Il più veritiero”, attributo di Abu Bakr, il primo califfo dell’Islam. Nell’originale khilvat o anjuman, cioè “intimità ed esteriorità”. Il tempio pagano di Somnath distrutto da Mahmud di Ghazna. Nell’originale dasht o kuhsar, cioè “deserti e montagne”. Nell’originale pak, cioè “puro” di me e te, quindi “privo”,”lontano”. Sinonimo di “onore”, ossia pane guadagnato con la schiavitù. Si riferisce a Mahmud di Ghazna e al suo schiavo Ayaz. Vedi nota 237. Distico ripreso da un poema persiano in cui si descrive l’ascesa del Profeta al Cielo. Guidato da Gabriele, come Dante da Virgilio, solo il Profeta poté superare l’ultimo stadio della visione, rimanendo indietro Gabriele. Nell’originale ‘ibrat ka taziyama, “frusta ammonitrice”. Nell’originale questa frase è ripetuta due volte. Il significato di questo verso è molto oscuro. Probabilmente, significa che l’imperialismo europeo, con il suo controllo del cielo e del mare, ha creato un vortice con il quale distruggere gli orientali; questi, a loro volta, considererebbero il vortice come un destino inalterabile. Cfr. Poems from Iqbal, translated by V. G. Kiernan, London, John Murray, 1955, p.107. Ossia il povero, il mendicante. Nell’originale simabi, cioè “mercurio”. Ossia Iqbal. Rumi ha, nel testo originale, l’appellativo di pir, ossia “guida spirituale”. Vedi nota 81. Iqbal, lo ripetiamo, fu un grande ammiratore di Rumi, di cui stimò la profondità moderna del pensiero che lo elevava su tutti i suoi seguaci dai quali non fu però compreso. È il difficile e controverso problema della cosiddetta “guerra santa”. Secondo l’accezione comune, la jihad ha un significato solo se usata per la diffusione del monoteismo; in tutti gli altri casi è furto o saccheggio. Nell’originale hadith, l’insieme dei detti e fatti attribuiti al Profeta o ai suoi “compagni” (sahabi) e talvolta anche a musulmani di seconda generazione (tabi’), fonte autorevole seconda solo al Corano. Nell’originale jabr o qadar, cioè “forza del destino”. La figura di Satana ha sempre affascinato Iqbal, che ne ha trattato in varie poesie. Secondo il Corano, mentre Adamo si è pentito ed è stato perdonato, Satana (Iblis) ha perseverato nel suo errore incorrendo così nell’ira divina. Per un’ampia disamina della figura di Satana, cfr. Alessandro Bausani, Satana nell’opera filosofico-poetica di M. Iqbal, in “Rivista degli Studi Orientali”, Roma, XXX, 1955, pp.55-102. E per un commento più dettagliato di questa poesia, cfr. M. Mir, op. cit., pp.39-46. Nell’originale jahan-i rang-o-bu, letteralmente “il mondo dei colori e degli odori”. Si riferisce alla disobbedienza di Satana, qui visto con la stessa simpatia del Satana miltoniano. L’originale taqnatu e la-taqnatu, “dispera” e “non disperare” ha un riferimento nel Corano, XXXIX, 53: “Non disperate della misericordia di Dio (la taqnatu min rahmati ‘llah), poiché Iddio tutti i peccati perdona”. Mitico personaggio che ottenne l’immortalità bevendo l’Acqua della Vita. Vedi nota 251. Il Profeta; vedi Corano, VI, 85; XXXVII, 123-132. “Egli è Dio”, formula usata nei rituali delle confraternite mistiche, per le quali Iqbal non nutriva molta simpatia, almeno in questa fase del suo pensiero. È l’azan o adhan, la preghiera canonica, che dà il titolo alla lirica. Nell’originale Ayyaz, schiavo favorito di Mahmud di Ghazna. Vedi nota 237. Per la traduzione ci siamo basati sulla versione inglese di Javed Iqbal, al quale la poesia fu dedicata dal padre. Vedi anche nota 315. Il poeta dedicò a Javed un’altra poesia nello Zarb-i Kalim. Si tratta di Avicenna (980-1037) il cui nome è Abu ‘Ali Husain ibn Sina, noto soprattutto per il Qanun fi at-tibb (Canone della medicina) e il Kitab al-shifa’ (Il libro della guarigione). Cfr. Il Canone di Avicenna fra Europa e Oriente nel primo Cinquecento, a cura di Giorgio Vercellin, Torino, UTET, 1991. Vedi nota 81. Si tratta dell’inserimento (tazmin) di un distico di Ghalib: vedi nota 115. Asadu’llah Ghalib (Agra 1796-Delhi 1869) visse come poeta alla corte dell’ultimo imperatore moghul Bahadur Shah Zafar e successivamente alla corte del sovrano di Lucknow sino al 1855 quando l’ultimo governante Wajid ‘Ali Shah fu deposto dagli inglesi. La sua opera completa in persiano e in urdu fu pubblicata a Lucknow nel 1863. Cfr. Ahmed Ali – Alessandro Bausani, Ghalib. Two Essays, Roma, IsMEO, 1969; e A. Bausani, The position of Ghalib (1796- 1869) in the history of Urdu and Indo-Persian poetry, in “Islam”, XXXIV, 1958, pp.99-127. Iqbal ebbe sempre una speciale predilezione per questo poeta grande ma sfortunato, che collocò nel paradiso assieme a Mansur al-Hallaj (vedi nota 42). A Ghalib Allama Iqbal dedicò una delle prime poesie, la n.4 del Bang-i dara (cfr. Il richiamo della carovana, op. cit., pp.59-60). Nel diario Stray Reflections, op. cit., p.50, c’è una nota significativa della predilezione di Iqbal per Ghalib: “As far as I can see, Mirza Ghalib – the Persian poet – is probably the only permanent contribution that we – Indian Muslims – have made to the general Muslim literature. Indeed he is one of those poets whose imagination and intellect place them above the narrow limitations of creed and nationality. His recognition is yet to come”. Vedi nota 81. Citazione di un distico di Rumi. Monte della Persia. Timur, il nostro Tamerlano, il conquistatore mongolo che saccheggiò Delhi nel 1398. Dopo aver devastato le terre dei musulmani, i mongoli si convertirono all’Islam e divennero gelosi custodi della Mecca. Il grido è il takbir, cioè “Allah-u-akbar”, e gli uomini di Dio sono i combattenti per la fede. Secondo un uso frequente, cioè l’inserimento di versi altrui [tazmin] con commento, Iqbal riporta un distico da un ghazal del mistico persiano Hafiz di Shiraz (1320 circa-1390). Su Hafiz scrisse questo pensiero in Stray Reflections, op. cit., p.137: “In words like cut jewels Hafiz put the sweet unconscious spirituality of the nightingale”. Questa poesia fu composta prima della campagna militare italiana in Etiopia: è decisamente favorevole a Mussolini che Iqbal vede come una forza nuova, capace di risvegliare negli occhi dei vecchi lo splendore della vita e nei petti dei giovani l’ardente desiderio. Iqbal era stato ricevuto da Mussolini a Roma, a Palazzo Venezia, il 27 novembre 1931, per una breve visita di cortesia. Sull’argomento dell’incontro, molto controverso, cfr. la mia introduzione alla traduzione del Bang-i Dara – Il richiamo della carovana, op. cit., pp.36-43. Una seconda poesia su Mussolini, con il sottotitolo di “Ai suoi avversari in Oriente e in Occidente”, composta a Bhopal il 22 agosto 1935, fu inclusa nella terza opera poetica in urdu, lo Zarb-i Kalim (La verga di Mosè), pubblicato nel luglio 1936. Il sottotitolo preannuncia un’autodifesa di Mussolini nei confronti degli Inglesi che mal digerirono la campagna d’Etiopia. Mussolini enumera tutti i crimini e le sopraffazioni inglesi che sono stati giustificati nei secoli “sotto il velo della civiltà” e dà così una giustificazione dei suoi: in apparenza potrebbe trattarsi di una difesa di Mussolini, nella realtà è un’amara constatazione dell’imperialismo che si è sempre servito di tutti i mezzi a sua disposizione nella più cruda ottica machiavellica. Allo stesso argomento si riferisce la poesia “Abissinia” composta qualche giorno prima, il 18 agosto, e inclusa nello Zarb-i Kalim. Un solo credo (tohid) e l’armonia tra gli uomini. Iqbal si riferisce alla situazione del Panjab al tempo del Partito Unionista di Fazl-i Husain, la cui tattica era di mettere musulmani e hindu gli uni contro gli altri e all’interno della comunità musulmana gli “agricoltori” contro i “non-agricoltori”. Il poeta, che non aveva una grande stima dei proprietari terrieri, protestò contro questo sistema. Nadir Shah (1880-1933) salì al trono dell’Afghanistan nel 1929. Iqbal aveva nutrito molte speranze, considerando il re un possibile fautore della rinascita politica islamica. Dal 20 ottobre al 3 novembre 1933 Iqbal fu invitato dal sovrano come consigliere sulla riforma scolastica assieme a Sir Ross Mas’ud e Sayyid Suleiman Nadvi. Pochi giorni dopo la visita, Nadir Shah fu assassinato. Vedi anche nota 98. È tutta un’allegoria: la nuvola è Nadir, le perle che Dio gli ha concesso come dono della partenza da questa terra si tramuteranno in pioggia e poi in lacrime. Il papavero o tulipano, traduzione approssimata di lalah, è spesso sinonimo di “nazione dell’Islam” (millat-i Islam). Khushhal Khan Khatak fu un famoso poeta in pashtu, che lavorò per l’unione delle tribù della frontiera aghana e per la liberazione dai Moghul; tra le tribù solo gli Afridi rimasero al suo fianco sino alla fine. Un centinaio delle sue poesie furono pubblicate in traduzione a Londra nel 1862 (Nota di Iqbal). Khushhal Khan (1613-1689), della tribù dei Khatak, detto il “Padre del pashtu”, fecondo poeta: tra i motivi della sua poesia, l’onore (nang) e l’odio per i Moghul, in particolare per Aurangzeb. In un articolo pubblicato in “Islamic Culture”, May 1928, Iqbal scrisse: “L’unificazione degli Afghani, un processo che si svolge sotto i nostri occhi, è uno dei capitoli più interessanti nella storia dell’Asia Centrale. Tra le figure più importanti nella storia di quest’interessante movimento sono da annoverare Bahol Lodhi e Sher Shah Suri in India, il poeta khatak Kushhal Khan e Pir Roshan tra le tribù di frontiera, il defunto emiro ‘Abdul Rahman e suo nipote re Amanullah in Afghanistan. Il volume cui fa riferimento Iqbal è Selections from the Poetry of the Afghans from the sixteenth to the nineteenth century, by H. G. Raverty, London, Williams & Norgate, 1862: copia posseduta da Iqbal con numerose sottolineature a matita di versi del poeta afghano (Muhammad Siddiq, Descriptive Catalogue of Allama Iqbal’s Personal Library, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 1983, p.105). Questo distico è anonimo; lo cita Nasir ad-din Tusi, probabilmente nello Sharah Isharat (Nota di Iqbal). Nasir ad-din Tusi (1201-1274), filosofo e scienziato sciita, disinvolto e poco coerente in quanto ad etica politica, fu isma’ilita in gioventù, al servizio dell’ultimo gran maestro degli Assassini, Rukn ad-din Kurshat, che tradì durante l’assedio di Alamut passando dalla parte del mongolo Hülagü, dal quale fu ricompensato e apprezzato. Ibidem. Abu al-’Ala al-Ma’arri, famoso poeta arabo (Nota di Iqbal). Nato a Ma’arrat an-Numan, in Siria, nel 973, cieco fin dalla nascita, fu un dotto pensatore e poeta. Morì nel 1057. Risalat al-Ghufran è il titolo di un suo famoso libro (Nota di Iqbal). “L’epistola del perdono” è una fantasia escatologica, che narra il viaggio di un amico nei regni d’oltretomba, i suoi incontri con personaggi illustri del passato, le sue avventure. Luzumiyyat è la raccolta dei suoi panegirici (Nota di Iqbal), componimenti brevi, frutto di meditazioni personali sulla vita e il destino, la Rivelazione e il promesso Aldilà, l’uomo e la società umana. In genere un pir è un santone o guida spirituale musulmana. Nella realtà, in questo caso in zone arretrate del Panjab, si tratta di una casta ereditaria che, sfruttando l’ignoranza e l’arretratezza della gente, ha accumulato grandi ricchezze e potere. Iqbal condanna questo culto che non ha nulla a che fare con l’Islam puro. Lo Shaikh-i Mujaddid o riformatore religioso di questa poesia è Ahmad Sirhindi (1564-1624) della confraternita della Naqshbandiyyah, contrario allo sci’ismo e alle innovazioni dell’imperatore Akbar (regnò 1556-1605). Jahangir (regnò 1605-1627), successore di Akbar, non si interessò di problemi religiosi come il padre, anche se amava conversare con uomini pii di fede hindu (sadhu), con musulmani e cristiani Faqr è un termine adoperato da Iqbal per la prima volta nel Javed Nama pubblicato nel febbraio 1932. Faqr insegna all’uomo a credere che quanto egli possiede (anima e corpo, ricchezze e terre) non è suo ma di Allah; di conseguenza il faqir è colui che si considera povero malgrado le ricchezze possedute. Cfr.Yusuf Salim Chishti, Iqbal’s Philosophy of Faqr, in “Iqbal Review”, Karachi, III, N.3, October 1962, pp.40-59. Vedi anche nota 221. Nell’originale Husain (vedi nota 214) è citato con l’appellativo di Shabbir, vezzeggiativo usato dal Profeta per chiamare il nipote. Per il khudi, vedi nota 103. Vedi nota 99. In un discorso Iqbal raccontò un aneddoto su Satana. Un giorno i discepoli di Satana furono sorpresi nel vedere il loro signore sprofondato in una poltrona con un sigaro in bocca; ma egli si giustificò dicendo che era in vacanza avendo affidato tutti gli affari al Governo Britannico. Qaani (Shiraz 1808-Teheran 1854), studioso dei classici, gran viaggiatore, poeta di corte del sovano qajar Mohammad Shah, fu autore di celebri panegirici e di un Divan in prosa mista a versi. Cfr. A. Bausani, La letteratura neopersiana, op. cit., pp.306-315. Per Iqbal il falcone è il simbolo dell’uomo perfetto (al-insan al- kamil), del credente sempre in cerca della perfezione del proprio Io. L’originale khakdan significa “recipiente per immondizie”, qui usato per “mondo terreno” con una connotazione negativa. Nell’originale rizq, “necessità quotidiane”. Nell’originale darvesh. Harun ar-Rashid, il califfo delle “Mille e una notte”, regnò dal 786 all’809; fu contemporaneo di Carlo Magno con il quale scambiò varie ambascerie. Adattata da Nietzsche (Nota di Iqbal). Adattata dal tedesco (Nota di Iqbal). 4 Bal-i-Jibril 135 L’Ala di Gabriele